Hillary Clinton si è presa il South Carolina, non ha solo prevalso nelle primarie di quello stato, afro americano al 50%, ma ha assolutamente dominato con un soverchiante trionfo del 73% – 26%, numeri oltre ogni pur roseo pronostico che rappresentano una vittoria più schiacciante fra gli elettori neri di quella ottenuta nel 2008 dallo stesso Barack Obama!

Il famoso cordone di sicurezza fra gli African Americans ha più che tenuto per la candidata che negli ultimi giorni è stata accompagnata a dibattiti e comizi da cinque madri di giovani neri ammazzati dalla polizia.

Per Sanders, che pure alla vigilia aveva ricevuto l’appoggio di Spike Lee  si tratta di una sconfitta che sommata a quella del Nevada significa che non ha ancora vinto fuori dal suo distretto del New England.

Una disfatta sì annunciata, ma con un margine tale da porre forzatamente alcune urgenti domande sulla sua eleggibilità se non saprà ampliare in fretta la propria base oltre ai giovani più militanti.

A questo riguardo sarà cruciale l’esito del voto di “super” martedì prossimo in cui verranno assegnati delegati in 11 stati.

[do action=”citazione”]Il Supertuesday promette di esser determinante anche in campo repubblicano.[/do]

Se i pronostici, come hanno fatto finora, verranno confermati e Trump si aggiudicasse una media del 35% dei voti, potrebbe consolidare un vantaggio di 100 delegati sul prossimo classificato (per vincere ne servono 1237) e forse chiudere la partita entro il 15 marzo, quando voteranno un’altra manciata di stati compresi Ohio, Florida e Illinois.

È un calcolo che chiaramente ha già fatto l’ex candidato Chris Christie dichiarando venerdì il proprio sostegno a Trump.

Il governatore del New Jersey rappresenta la prima defezione importante dai ranghi del partito per salire sul carro sempre più vincente di Trump.

Comincia insomma ad esserci una palpabile sensazione di inevitabilità attorno all’iconoclastico demagogo e un’America incredula si trova a metabolizzare il fatto che, come ha scritto Matt Taibbi su Rolling Stone “questo rozzo, monosillabico tiranno da reality TV, con l’attenzione di un undicenne che gioca ad X-Box, possa davvero devastare la più impenetrabile oligarchia mai escogitata nel mondo occidentale”

La soverchiante cifra di Trump infatti, malgrado le esternazioni xenofobe e bellicose non è certo un estremismo conservatore ma una sorta di eterodossia liberatoria quantunque venata di un sinistro autoritarismo.

Un ultracorpo che non ha precedenti nel panorama politico Usa e che ha preso alla sprovvista il sistema fondato su partiti, finanziamenti delle corporations e filtro dei media.

In realtà l’establishment repubblicano che attualmente si sta stracciando le vesti raccoglie i frutti avvelenati della prassi decennale di fomentare la rabbia rauca della base ogni qual volta è stato utile strumentalizzarne i voti.

Ora che le masse esautorate dalla globalizzazione e dalla diseguaglianza rampante vengono scagliate da Trump contro gli antichi padroni nel palazzo si è scatenato il panico.

Per questo è così affascinante l’eviscerazione del partito repubblicano, perché esercita lo stesso fascino morboso di un incidente d’auto da cui è difficile distogliere gli occhi.

Solo nell’ultima settimana Trump ha attaccato la dinastia Bush chiedendogli conto dell 11 settembre, elogiato Gheddafi e i consultori ginecologici di Planned Parenthood che i repubblicani da anni vogliono chiudere e denunciato gli assicuratori privati che sono parte integrante anche della riforma sanitaria di Obama come “sanguisughe”. Sacrilegi fino ad oggi impensabili da un pulpito repubblicano che hanno mandato in visibilio i suoi supporter.

Allo stesso tempo Trump è ancora più distante da posizioni progressiste in virtù del suo razzismo viscerale e della sua demagogia sommaria; un giustiziere che emana sacro fuoco purificatore contro un sistema corrotto e al contempo è un mitomane dalle insondate proclività autoritarie.

Accade così che in questo 2016 una primaria che doveva essere “normale” e perfino favorire il partito di opposizione dopo 8 anni di mandato democratico, trovi invece il partito repubblicano allo sbando.

A far fronte  “all’alieno” Trump c’è un campo frammentato come non mai.

Gli oltre dieci concorrenti di un paio di mesi fa sono diminuiti a quattro che sono ancora abbastanza per dividere il possibile voto anti-Trump e garantire che anche col 35% il miliardario continui la sua marcia sulla nomination. È davvero incredibile che quella che potrebbe rivelarsi una storica crisi strutturale del bipartitismo americano sarà venuta non dai ciclici riformismi, dal socialismo degli anni ’30, dal movimento dei diritti civili degli anni ’60, o da altre sfide politiche al sistema, ma da un nichilismo anarcoide che rappresenta il trionfo dell’antipolitica.

Uno scenario da incubo che comunque impallidisce a confronto a quello davvero terrificante di una vittoria a novembre e dell’insediamento di un presidente Trump alla Casa Bianca.

Rimane l’ipotesi di un atto finale nella convention di luglio, altrimenti si profila la sfida conclusiva di Trump con l’avversario democratico.

Per quanto Obama ribadisca di avere fiducia in ultima analisi “nel buonsenso del popolo americano”, sullo sfondo del populismo trasversale di Trump, capace di fare appello a riserve non ancora quantificate di rancore bipartisan, l’esito potrebbe essere incerto.

E nell’anno dell’insurrezione antipolitica, rischia di esserlo di ancora di più contro Hillary Clinton che più di ogni altro candidato incarna “il sistema” politico in tutti i suoi aspetti.