«Dove posso buttare questo mozzicone?» – ci chiede un migrante premuroso, lasciandoci un po’ perplessi.
«Non so, neanche io sono di qui» – gli rispondo.
«Lo butto lì, nel bidone della spazzatura».
«Io ne ho appena buttato uno a terra» – dice uno degli abitanti di Szeged che sta lì con noi, nella piazza della stazione, dove poco fa la polizia ha lasciato circa 60 migranti in attesa del primo treno dell’alba con destinazione Budapest. Partirà alle 4 e 36, fra circa 7 ore.

Dopo aver gettato il mozzicone nella spazzatura il migrante torna, respira e pieni polmoni e poi inizia a parlare. Non si ferma più, non serve fargli domande: «Volete che vi racconti la mia storia? Sono partito da Damasco un mese fa, all’inizio di giugno. Ho superato vari checkpoint e sono andato in macchina fino a Beirut. Ho preso un volo per la Turchia. Poi la nave fino in Grecia. Sono passato da Atene, Salonicco, Polikastro e Evzonoi. Abbiamo attraversato a piedi la frontiera con la Macedonia. In Macedonia siamo andati in bicicletta, a piedi e in treno. Anche in Serbia siamo andati a piedi e in treno, e anche in macchina. E poi a piedi fino a quando la polizia ungherese ci ha preso. Abbiamo viaggiato con ogni possibile mezzo fino a qui».

«Dalla Turchia alla Grecia – prosegue a raccontare – siamo passati in barca partendo da una spiaggia vicino a Izmir e arrivando all’isola di Chio. Io ho pagato 900 dollari ma altri rifugiati arrivati più tardi hanno pagato fino a 1500 dollari. Abbiamo avuto molta paura. Ci hanno portato di notte tardi. Ci hanno detto di starcene completamente zitti, che i bambini non potevano piangere, che non potevamo nemmeno accendere una sigaretta. Ancora in spiaggia, ci siamo messi tutti il salvagente e siamo entrati in una di quelle imbarcazioni gonfiabili di gomma che – c’era scritto! – era, al massimo, per 30 persone. Eravamo 46 adulti e 4 bambini. Quando siamo entrati tutti, abbiamo chiesto ai trafficanti: “Chi di voi viene a guidare la barca?”. E loro hanno risposto che dovevamo guidarla noi. Nessuno di noi sapeva guidare. Ci hanno dato un cellulare vecchio e, dall’alto di una collina da cui ci tenevano d’occhio, ci dicevano, man mano che avanzavamo, al telefono, “sinistra, destra”. Più di un’ora dopo siamo arrivati su una spiaggia di Chio. È stato un miracolo, eravamo molto contenti, eravamo in Europa! Volete vedere il video? Ce l’ho qui nello smartphone, guardate…»,

Ci mostra il finale di quel diario di bordo visuale, prime luci dell’alba, la barca che arriva su una spiaggia europea. Poi alcune foto: una panoramica della spiaggia inondata da decine o addirittura centinaia di salvagenti di altri migranti sbarcati lì prima di loro; un selfie, lui con un sorriso enorme e l’imbarcazione semi distrutta sullo sfondo. «Il gommone ha imbarcato acqua verso la fine della traversata, nelle ultime miglia è quasi affondato», continua lui.

Profughi nei pressi di Szeged
Profughi nei pressi di Szeged (LaPresse)

Qui a Szeged, nella piazza della stazione, passa una bicicletta, poi uno degli ultimi tram della notte. Numero 2, destinazione: Európa liget, Parco Europa.
«Ma il peggio è venuto dopo, in Macedonia, per via della mafia e dei trafficanti. Credo che questi siano d’accordo con la polizia. Siamo stati assaltati sulle montagne. Ma è successa una storia divertente. A un certo punto, il nostro gruppo, circa 10 persone, ha dovuto comprare delle biciclette per continuare. Ne abbiamo comprate tutti, a 125 euro l’una. Poi, quando eravamo pronti per partire, uno di noi ha detto: “Ma io non so andare in bicicletta!”. Sapete cos’è successo? Abbiamo passato mezz’ora a insegnargli come andare in bicicletta. Ha imparato in fretta e poi abbiamo continuato l’avventura. Ha imparato ad andare in bici in mezz’ora! Alla fine, ieri notte siamo arrivati in Ungheria. Abbiamo pagato 500 euro ai trafficanti in Serbia perché ci facessero passare la frontiera e se arriveremo a Vienna dovremo pagarne altri 1000. È tutto molto caro, ma ne vale la pena. Sapete quanto ho già speso fino a qui? Quasi 3000 euro. Ma c’è un siriano che è riuscito a comprare un passaporto falso in Grecia, di un greco che gli assomigliava, sapete quanto gli è costato? 9000 euro. Un biglietto per un volo diretto in Germania! È stato caro, ma così è stato anche molto più facile. Io avrei fatto lo stesso…».

Una chiamata da Damasco
Gli squilla il telefono. È un amico, di Damasco. Non risponde ma chiede se può approfittare del momento per provare a chiamare casa. Forse infatti a Damasco, dato che l’amico è riuscito a chiamarlo, c’è l’elettricità. Riesce infatti a parlare con la famiglia solo quando lui trova una connessione wi-fi qui in Europa, e loro hanno la luce, là a Damasco, coincidenza rara. Non parla con la madre da tre giorni, lei ancora non sa la storia dell’ultima frontiera. Nemmeno questa volta sarà la volta buona.

«Ieri notte abbiamo superato la frontiera a piedi. Poi c’era una macchina che ci aspettava. Stavamo andando in macchina da poco quando è arrivato un uomo, vestito in borghese e ha puntato una pistola alla testa del nostro autista, che era serbo. Hanno gridato molto tra loro. Abbiamo avuto tutti molta paura. Poi è venuta la polizia e ci ha portati in commissariato. Siamo arrivati lì alle 11 di sera e ci hanno dato qualcosa da mangiare solo all’una di notte. Pane, una barretta di cioccolato e una caramella. Dopo, ci hanno preso le impronte digitali di tutte le dita. Al commissariato ho avuto davvero molta paura. C’era un poliziotto che ha picchiato sulla testa un altro rifugiato siriano e che gli gridava: “Ti metto in galera!”. E il mio amico siriano urlava al poliziotto ungherese: “E io vado a dire alle Nazioni Unite tutto quello che mi stai facendo!”. Noi stiamo scappando dalla guerra e dalla violenza, non vogliamo affrontare altra violenza. E loro non ci hanno trattato con umanità. Io sono solo un essere umano».

Prima di accendersi un’altra sigaretta, ce ne offre una. Quel pacchetto gli è costato 5 euro e gliel’ha venduto un poliziotto, al commissariato. Qui fuori, lo stesso pacchetto costa 3 euro. Insieme alle sigarette, nella borsa che tiene stretta contro la cintura, tiene un sigaro che ha promesso a se stesso di fumare una volta arrivato alla destinazione finale del viaggio. Erano due sigari, il primo l’ha fumato alla partenza da Damasco.

«Non potevo continuare a stare in Siria. Un mio cugino è stato rapito a un checkpoint della polizia. Non c’è futuro. Avevo una fabbrica di asciugamani e tovaglie a Duma, vicino a Damasco, quando ero più giovane (adesso ha circa 30 anni, nda). Mi sono innamorato, mi sono sposato, mi sono sbagliato. Poi è venuta la guerra e mi ha distrutto la fabbrica. Sono riuscito comunque, dal 2011, a fare l’università, in gestione aziendale, mentre nel frattempo lavoravo come amministratore di una banca. Non volevo lasciare la Siria, mia madre è triste, sono il suo unico figlio maschio. Adesso lei e mio padre sono rimasti soli con le mie sorelle. Ma non c’è niente da fare. Io non posso avviare una nuova attività nel pieno di una guerra, in un Paese sotto embargo. Voglio costruire un nuovo futuro in Europa. Tra 4 o 5 anni voglio avere la nazionalità svedese».

Fa una pausa, tenta di nuovo di parlare con la madre, ancora invano. «A voi piace leggere? Dovete leggere uno degli ultimi libri che ho letto prima di lasciare la Siria. L’ho letto in una notte, tutto d’un fiato. Non riuscivo a smettere. Lo scrittore si chiama Moustafa Khalifa e il titolo del libro è Al-Qawqa («La Conchiglia. I miei anni nelle prigioni siriane», Mustafa Khalifa, Castelvecchi Editore, 2014: è il diario romanzato dell’esperienza di Khalifa, prigioniero tra il 1982 e il 1994 del regime di Hafez-al-Assad). È incredibile! È la storia di un uomo che ha studiato cinema a Parigi e che al ritorno in Siria, è stato arrestato dalla polizia politica. È stato dodici anni in una prigione a Palmira. È una storia vera, quell’uomo ora è in esilio. Dovete davvero leggerlo, questo libro».

Si interrompe di nuovo per andare a buttare un altro mozzicone nella spazzatura. «Sapete una cosa? – riprende – Sono già dimagrito molto in questo mese. Guardate la mia cintura, ho già stretto di due buchi. A volte non mangio molto perché ho paura di non trovare un bagno decente dove andare… Preferisco mangiare Snickers e bere Red Bull per avere più energia. Ohi, volete vedere quant’ero grasso? Ho qui delle foto sul telefono, di quand’ero ancora a Damasco! Guardate questa, al matrimonio di un amico, tutti noi vestiti bene, in giacca e cravatta. Cacchio, sono davvero più magro, no? Questo viaggio è come fare dieta e sport allo stesso tempo! (grandi risate, nda). Dobbiamo mantenere l’ironia e l’ottimismo. I have a dream. I will make it!».

«Come ti chiami?».
«Mohammed».
«Io sono Balázs».

In quest’estate ritagliata dal filo spinato, Balázs Szalai passa di certo più ore alla stazione dei treni di Szeged che a casa sua. Giornalista freelance sulla trentina, collaboratore di Radio Mi e anche attivista del Migszol, un movimento ungherese di solidarietà con i migranti, Balázs non ha ascoltato tutta la storia di Mohammed perché quella notte non si fermava un attimo, affaccendato in mille cose.

Era Balázs a organizzare con pochi altri volontari locali – il gruppo s’ingrandirà nelle settimane successive – la raccolta di cibo per le circa 60 persone, inclusi una dozzina di bambini, che stavano lì a contare le ore di attesa del primo treno verso il futuro. Era Balázs che, sempre con un sorriso, cercava di spiegare quello che sapeva a quegli uomini e a quelle donne, tutti identificati da un braccialetto verde e a cui la polizia aveva dato una lettera, in ungherese, che diceva che avevano 3 giorni per presentarsi a Debrecen, il più grande campo di rifugiati e richiedenti asilo del Paese, un campo già sul punto di esplodere in quel periodo.
Alcuni di loro avevano anche ricevuto un foglio A4, una fotocopia in bianco e nero consegnata dalle autorità con una cartina dell’Ungheria in cui erano segnate Szeged, Debrecen e Budapest. Ma quasi nessuno rispetta l’indicazione ufficiale di andare verso il campo segnato: le destinazione per tutti è prima Budapest e poi Vienna, risalendo il corso del Danubio.

La notte avanzava, la colonnina di mercurio si contraeva sino a un punto tra i 10 e i 15 gradi, e la responsabile della stazione di Szeged comunicava a Balázs che, nonostante l’anomalo calo di temperatura, era necessario chiudere la stazione e spostare «tutta quella gente in strada». Lui ribatteva: «E se questa gente fosse qui a causa di un terremoto?». Ma lei secca e tassativa: «Questa non è un’emergenza». Quando poi sono arrivati due poliziotti per eseguire, in teoria, l’ordine di chiusura, lui stava lì con il suo smartphone alzato a filmare tutto.

Quel telefono e gli occhi di Balázs formavano così un muro contro gli atti disumani, a volte praticati sotto forma di eccesso di zelo. Era lui l’unico muro che difendeva quelle persone. E quella notte, al contrario di tante altre, la stazione non ha chiuso e quei bambini non hanno dormito all’aperto.

Il pianto di Fatma
Nell’atrio, l’orologio ha già segnato la mezzanotte. Da qualche minuto Fatma e Ahmed dormicchiano in braccio ai genitori, famiglia scappata dalla regione di Qamishli, nel Kurdistan siriano, vicinissimo a una delle tante linee del fronte dell’Isis. In tutta la notte, Fatma, 2 anni, è stata l’unica bambina che abbiamo sentito piangere, e soltanto per qualche secondo.

C’è chi dorme in terra, avvolto in una coperta o dentro un sacco a pelo dalla stoffa sporca e rovinata per il viaggio; c’è chi si addormenta seduto, appoggiato a uno dei pilastri che sostengono il pannello delle partenze su cui si legge che il primo treno del mattino è quello che tutti aspettano, delle 4.36 per Budapest; altri si siedono sulle scale, conversano, si distraggono su internet o con giochi sul telefono. Ogni tanto, qualcuno riesce a chiamare la famiglia, dall’altro lato della guerra, e all’improvviso si sente una voce raggiante, ma a volume basso, una timida esplosione d’allegria, sottovoce.

Al secondo piano della stazione la scena si ripete. Se si toglie il contesto, sembrano soltanto un gruppo di viaggiatori che ha perso l’ultimo treno della notte e deve prendere il primo del mattino. Ma siccome il contesto c’è, ci intriga quella signora sola con il suo bastone. Dormicchia su quella panchina, avrà tra i 60 e i 70 anni: come sarà riuscita ad arrivare fin qui? «Anche i vecchi vogliono vivere».

Tre e mezza di notte. Del piccolo gruppo di attivisti che ha iniziato la notte di solidarietà, ne resta solo uno, Balázs: un essere umano che tiene in mano un pentolone con quasi dieci litri di tè per altri sessanta esseri umani che a quest’ora avrebbero voluto prendere un tè nelle loro case, se esistessero ancora, in quei posti in cui il tè è il sangue della quotidianità. È quasi impossibile che il tè di Szeged sfiori la qualità del tè di Damasco, Kabul, Sulaymaniyah o Qamishli. Ma certo il suo sapore, rimarrà impresso nella memoria di queste persone. Riempiamo i bicchieri di plastica e Mohammed con alcuni compagni si occupano di distribuirli al gruppo.

In un angolo, c’è ancora chi sta tra le braccia di Morfeo. Mohammed si rivolge ad uno scorbutico ferroviere, il primo a cercare di eseguire l’ordine di chiusura e offre anche a lui un bicchiere di tè. Anche lui è «solo un essere umano». Lui rifiuta, con lo stesso tono austero con cui qualche minuto dopo ci avrebbe informato che si doveva «metterli tutti nell’ultimo vagone del treno».

«Parte fra qualche minuto dal binario 1, il treno con destinazione Budapest», informa l’altoparlante.

Ci siamo già serviti l’ultimo tè. Si sente il trafficare dell’ennesima partenza. Le sessanta persone con cui abbiamo passato tutta la notte finiscono di accomodarsi nei vari scompartimenti dell’ultimo vagone. C’è spazio per tutti, non sono ancora quelle immagini drammatiche che più tardi sarebbero arrivate dalla Macedonia di uomini, donne e bambini schiacciati dentro ai vagoni come fiammiferi in una scatolina troppo piccola.

All’ultimo arriva una giovane ungherese trascinando il suo trolley lungo la banchina, una valigia ben più grande di qualsiasi zaino con cui i migranti si portano la vita sulle spalle. Si prepara per salire sull’ultima carrozza del treno che sta per partire; il suo accompagnatore la sta aiutando a caricare la valigia ma vengono fermati dalla voce autoritaria del ferroviere: «Lì no, nell’altro vagone!». Lei fa altri trenta metri e sale. In questo treno delle 4 e 36 per Budapest pare che sia questo ferroviere a decidere, e non ogni passeggero, chi incontrerà un fratello viaggiatore, chi incontrerà “l’altro”. Migranti nell’ultimo vagone; ungheresi, europei, negli altri tre, quelli davanti.

Mohammed mi fa un cenno dal suo posto, mentre alcuni dei suoi compagni di viaggio allungano le braccia dai finestrini per una stretta di mano finale a me, a Móni Bense, professoressa e traduttrice, che mi sta accompagnando in questo viaggio lungo questo nuovo muro e, chiaramente, a Balázs Szalai che fumava l’ultima sigaretta della notte, la prima del mattino.

Si sente il fischio della partenza, l’ondulazione delle braccia accelera, i sorrisi si moltiplicano. «Goodbye!», «Thank you!», «As-salamu alaykum!»…
A testa bassa, il ferroviere ha già girato le spalle al treno in marcia, ma sulla banchina, lo sguardo di Balázs si prolunga ancora sul binario, seguendo quelle braccia che smuovono l’orizzonte. Il viaggio continua, per chi va e per chi resta. Mohammed e Balázs si sono promessi amicizia su Facebook, wall-to-wall.

Ha collaborato Móni Bense
Traduzione dal portoghese
di Serena Cacchioli
* Osservatorio Balcani e Caucaso

Il viaggio-reportage di André Cunha al confine tra Serbia e Ungheria è articolato in quattro puntate. Le prime tre sono già state pubblicate su www.balcanicaucaso.org, il sito dell’«Osservatorio Balcani e Caucaso»