Il più contento è Silvio Berlusconi, Augusto Minzolini l’ha aiutato ancora. Decidendo a maggioranza di non applicare la legge Severino al caso dell’ex «direttorissimo» del Tg1, infatti, il senato ieri mattina ha solennemente confermato il mantra del Cavaliere. «Vale solo per me», ha ripetuto negli ultimi quattro anni, trascorsi tra l’amarezza della decadenza e le improbabili speranze di rivincita. Che adesso diventano un po’ meno improbabili, perché quando la Corte europea per i diritti dell’uomo dovrà occuparsi di lui – Arcore spera entro l’anno – avrà davanti la prova oggettiva che la legge sulle «liste pulite» non si applica automaticamente ai parlamentari. Prevede un giudizio politico, che nei due soli casi in cui è stato attivato ha sommerso Berlusconi e salvato Minzolini.

MINZOLINI, SENATORE di Forza Italia, è stato condannato per peculato (uno dei reati contro la pubblica amministrazione previsti dalla Severino) per aver speso somme non giustificate con la carta di credito Rai (65mila euro in un anno e mezzo). La sentenza è passata in giudicato nel novembre 2015. Anche in questo Minzolini è stato tratto meglio di Berlusconi, per il quale erano passati solo quattro mesi tra la condanna definitiva e la decadenza. Nel luglio 2016, finalmente, la giunta per le autorizzazioni aveva preso atto della legge e proposto all’aula la decadenza del senatore, che scatta in tutti i casi in cui la condanna supera i due anni (mentre l’incandidabilità dura per sei anni). L’aula con una ventina di voti di scarto ha deciso di respingere la proposta della giunta, e tenere quindi Minzolini in senato. I sì all’ordine del giorno del centrodestra (con il quale si proponeva di non seguire la giunta) sono stati 137, i no 94 e gli astenuti (che valgono come no) 20. DECISIVI SONO STATI i voti dei partiti di maggioranza. Soprattutto del Pd, dove era stata lasciata libertà di coscienza. «In conformità a numerose votazioni precedenti», ha detto il capogruppo Zanda. Ma nell’unico vero precedente, quello Berlusconi, lo stesso Zanda diede un’indicazione diversa: «È un nostro dovere nei confronti della legalità respingere gli ordini del giorno contrari». Ieri hanno votato sì, in favore dunque di Minzolini, 19 senatori Pd. E altri 24 non hanno partecipato al voto, favorendo l’esito positivo. Il Movimento 5 Stelle ha immediatamente esposto i nomi alla gogna, pubblicando l’elenco sul blog di Grillo (o non di Grillo) come prova certa del «ritorno del patto del Nazareno», «scambio tra Lotti (mercoledì è stata respinta la mozione di sfiducia, Forza Italia non ha votato, ndr) e Minzolini». Si può credere o meno alle voci che danno Renzi poco felice per il voto del senato, ma tra chi ha detto no alla decadenza ci sono esponenti di tutte le correnti Pd.

È STATO UN VOTO contro la legge. Sul fronte giustizialista qualcuno ci vede addirittura un colpo di stato, mentre il fronte opposto festeggia l’atto di indipendenza del parlamento dalla magistratura. Il gesto però denuncia soprattutto l’impotenza del legislatore, di fronte a una legge scritta male, approvata quasi all’unanimità durante la fase del governo Monti (assieme a una serie di provvedimenti di emergenza presto rinnegati, dalla legge Fornero alla riforma dell’articolo 81 della Costituzione), con addirittura più entusiasmo da parte del centrodestra che del Pd. L’impotenza sta nel non riuscire a cambiare la legge – malgrado il ministro Orlando abbia annunciato «un tagliando» – ma solo a disapplicarla ai più fortunati.

PERCHÉ HA RAGIONE il vicepresidente grillino Di Maio, al di là del proclama buono per i peggiori talk show – «non lamentatevi se i cittadini diventano violenti» -, ha ragione a dire che «la legge Severino non esiste più». La Corte costituzionale l’ha già promossa due volte, ma sempre giudicando sul caso degli amministratori locali sospesi dalla carica dopo una condanna anche solo in primo grado. E, anzi, ha valutato la costituzionalità proprio in relazione al fatto che la sospensione è temporanea (mentre la decadenza da parlamentare è definitiva) e automatica – mentre per i parlamentari l’ultima parola, visto l’articolo 66 della Carta, non può che essere delle assemblee.

«Faremo presente a Strasburgo l’esito di questo voto, conferma che non c’è nulla di oggettivo nella decadenza al contrario di quanto sostenuto dal governo italiano, è una decisione politica», dice l’avvocato Saccucci che rappresenta Berlusconi davanti alla Corte di giustizia. Minzolini ha annunciato che si dimetterà comunque, ma le dimissioni vengono per prassi respinte. Ieri prima di essere rumorosamente festeggiato dalla destra aveva riletto lo stesso discorso fatto in giunta otto mesi fa. Anche lui è ricorso a Strasburgo, perché il giudice che lo ha condannato in appello (aumentandogli la pena il necessario per rientrare nella Severino) è un ex politico in vista del centrosinistra. L’avvocato di Minzolini aveva fatto presente ai senatori che, se la Corte europea dovesse dargli ragione, avrebbero rischiato di dover risarcire il danno della decadenza.