«Presidente, presidente!». Quando il carro funebre lascia la Città universitaria, l’ultimo saluto commosso a Stefano Rodotà è quasi un urlo, e scioglie il lunghissimo applauso (più di 25 minuti) che aveva ritmato l’uscita del feretro dalla facoltà di Giurisprudenza, dopo l’immancabile «Bella ciao», tributo che si offre ai difensori della democrazia.

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Stefano Rodotà Foto di Aleandro Biagianti

È nell’ex «Aula 3» dello storico edificio – dove Rodotà si era formato da studente negli anni Cinquanta, collaborando anche con Rosario Nicolò, e dove aveva poi insegnato a lungo (dal ’56 al ’66 come assistente e ordinario dal 1972) il Diritto a generazioni di studenti – che l’Università La Sapienza ha ospitato il funerale laico dell’amato e rispettato giurista. Un’aula che non è riuscita a contenere la grande moltitudine di persone arrivata per rendere omaggio al «professore» che, come candidato alla presidenza della Repubblica nel 2013, aveva raccolto consensi ben oltre il parterre di votanti alle «Quirinarie» on line lanciate dal Movimento 5 Stelle.In tanti sono rimasti tagliati fuori (a loro è stata riservata una saletta attigua collegata in streaming) anche a causa delle misure di sicurezza adottate per tutelare i big delle istituzioni che hanno voluto presenziare alla cerimonia accademica.

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La cerimonia all’interno della facoltà di Giurisprudenza foto Ansa

E COSÌ ATTORNO AL FERETRO, ai parenti e agli amici più stretti, ad ascoltare i ricordi commossi del preside della facoltà di Giurisprudenza Paolo Ridola, del rettore Eugenio Gaudio e degli ex allievi di Stefano Rodotà, oggi docenti di Diritto, Guido Alpa e Gaetano Azzariti, c’erano in prima fila i presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Piero Grasso, il vicepresidente di Montecitorio Luigi Di Maio, il ministro Maurizio Martina, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, il capogruppo dem al Senato Luigi Zanda, il presidente della commissione Esteri di palazzo Madama Pierferdinando Casini e il giudice costituzionale Giuliano Amato. In sala, tra gli altri, anche Susanna Camusso e Maurizio Landini, il segretario di SI Nicola Fratoianni, e gli amici di una vita, da Gianni Ferrara a Luciana Castellina, da Vincenzo Vita a Luigi Ferrajoli e il radicale Gianfranco Spadaccia.

LA FACOLTÀ di Giurisprudenza, il corpo docente, gli ex allievi e i tanti che si sono formati sui testi di Rodotà, tradotti peraltro in molte lingue, si sono «inchinati al maestro del diritto», allo «studioso di amplissimi orizzonti culturali, estremamente aperto alle trasformazioni della società», al grande «giurista mai avulso dall’impegno di pedagogia civile», all’«uomo libero» di «lucida e acuta intelligenza», di «grande onestà intellettuale», dalla «forte personalità e rigogliosa capacità creativa», che si «colloca nella galleria dei maestri dell’Italia civile evocata da Norberto Bobbio».

Troppo lunga è la ricostruzione dell’attività accademica e scientifica (non solo in Italia, ma in tutto il mondo) di Stefano Rodotà, morto venerdì a Roma all’età di 84 anni. Forse altrettanto lunga la lista di battaglie che ha condotto in nome del diritto, che riguardasse il contratto e la proprietà, o la persona e il corpo. Ha fondato periodici come Politica del diritto e Rivista critica, è stato parlamentare e il primo garante della privacy italiano, ha contribuito a scrivere la Carta fondamentale dei diritti dell’Europa e, soprattutto, dopo l’approvazione del 2000 ha lottato per conferire a quella Carta «diritto giuridico oltre che politico», come ha ricordato il professor Gaetano Azzariti. Insomma, ha fatto politica, dal basso e dall’alto.

«IL DIRITTO AD AVERE DIRITTI» non è solo il bel titolo del suo saggio, che conta più di venti riedizioni, ma è il sunto perfetto del pensiero di Stefano Rodotà. Un giurista ma anche un costituzionalista, perché «occuparsi della vita delle persone vuol dire preoccuparsi del loro “pieno sviluppo”, come recita l’articolo 3 della nostra Costituzione».

Lo ha spiegato bene Azzariti, docente di Diritto costituzionale, in una profonda e interessante ricostruzione della complessa personalità di Rodotà, interrotta dagli applausi quando ha sottolineato che «per comprendere lo stile costituzionale di Rodotà, la sua reale forza innovativa, bisognerebbe essere disposti al dialogo, alla comprensione reciproca. In diverse occasioni, invece, lo affermo con tristezza in questo momento – ha aggiunto – nei confronti del maestro del diritto s’è preferito utilizzare l’insulto, che ha finito per offendere solo chi l’ha pronunciato». Di Maio, in prima fila, si irrigidisce, si fa scuro in volto, ma si unisce all’applauso. Qualcuno insinua che non ha capito.

Rodotà era anche uno studioso abituato a «varcare i confini», sempre. «È da una linea di frontiera che è riuscito ad indagare il “diritto d’amore” (Laterza, 2014). Credo – ha affermato Azzariti – che nessuno con altrettanta delicatezza abbia saputo affrontare un tema così scivoloso per un giurista, ricordando a noi tutti che prima della legge, delle sentenze, della dottrina c’è qualcosa di ben più importante, un vero diritto inviolabile: quello ad amare. Prima delle regole c’è la vita».

Un messaggio che è rimasto sicuramente nel cuore di chi ha conosciuto Stefano Rodotà. Quando la bara scompare oltre i cancelli dell’Università, quasi a testimonianza di questa eredità, risaltano alcuni foglietti di saluto attaccati sui muri esterni di Giurisprudenza: «Al prof che avremmo voluto presidente», si legge. O «Grazie per aver difeso sempre i diritti di tutti», «Il tuo esempio rimarrà in noi artefici della libertà».