Sullo sfondo del commando suicida di New York non ci sono solo bin Laden o i servizi deviati e conniventi di qualche stato (non necessariamente classificato come “canaglia”) ma l’odio per gli Usa di moltitudini di abitanti nei paesi arabi. E quest’odio, lungi dal dipendere da motivi religiosi e culturali, è alimentato da cinquant’anni di frustrazioni, di umiliazioni, di impotenza – dalla prima guerra arabo-israeliana alla devastazione dell’Iraq, all’ultima Intifada.

Se il mondo vorrà evitare nuovi attentati, forse ancora più catastrofici di quello alle Twin Towers e al Pentagono, dovrà cercare di comprendere i motivi di tanto odio e ascoltare anche le ragioni di quelle moltitudini.

A dire queste cose non sono (solo) esponenti dei paesi arabi, ma gli editoriali di quotidiani autorevoli e moderati come il Los Angeles Times, The Independent e il Guardian. Persino nell’ora dello sgomento e della volontà di rivalsa, c’è chi, nel paese colpito e in quello che gli è più vicino, cerca di comprendere la logica politica di un vero e proprio atto di guerra, anche se dalle modalità radicalmente nuove.

Il problema non è infatti soltanto nella capacità di agire di organizzazioni terroristiche sofisticate e potenti, quanto nella disponibilità ad arruolarsi, fino al sacrificio di sé, di un grande numero di militanti. E per comprendere tale disponibilità, i concetti ricorrenti di “fanatismo” e di “fondamentalismo” sono contemporaneamente insufficienti e fuorvianti, per non parlare dell’abietta equazione “Islam uguale terrorismo” (come persino Bush ha compreso).

Bisogna piuttosto ritornare ad alcuni punti essenziali: la condizione dei palestinesi, che hanno di fronte la sola prospettiva di una guerra e quindi la morte, la devastazione della società civile irachena, cioè di milioni di innocenti, i tanti casi in cui la realpolitik occidentale ha soggettivamente e oggettivamente favorito il fondamentalismo: dal colpo di stato in Algeria alla guerra civile in Afghanistan.

E’ da queste vicende che si è visibilmente sviluppato l’odio, in larghe fasce sociali del cosiddetto terzo mondo, per l’occidente, Usa in testa. Lo ripetiamo: chi ha davanti a sé la prospettiva, reale o virtuale, della morte, sua o dei suoi congiunti e concittadini, è disponibile a dare la morte sacrificandosi.

Il crollo delle Torri, foto Ap

 

Se questo è vero, la ritorsione che Bush ha solennemente promesso, e che avrà la forma di una risposta bellica di tutto l’occidente all’attacco contro l’America, non potrà che radicalizzare il conflitto tra occidente e mondo arabo.

Un conflitto che non si radica affatto in uno scontro tra “civiltà” (come vuole Huntington), ma in una storia politica precisa, un conflitto in cui le responsabilità dell’occidente, negli ultimi decenni, sono sotto gli occhi di tutti.

Se mai missili o aerei americani colpiranno Kabul, Kandahar, Baghdad, Damasco o Karachi, provocando inevitabilmente molte vittime civili, chi leverà i pugni verso il cielo avrà un motivo in più per alimentare quell’odio e nuovi volontari per il suicidio si prepareranno.

Le monde ha pubblicato, il giorno dopo l’attacco, un editoriale in cui si ribadiva che “siamo tutti americani”. E questo è più vero di quanto forse siamo disposti ad ammettere, considerando i mille fili politici, culturali, storici ed economici che ci legano agli Usa. Fili che nemmeno il più acceso militante antiglobal sarebbe disposto a recidere del tutto.

Ma se è così, non accettiamo passivamente qualsiasi decisione politico-militare che verrà presa dall’altra parte dell’Atlantico, usiamo la ragione e non cediamo all’atlantismo esasperato e palesemente cieco di cui dà prova Berlusconi.

E’ vero, la guerra è alle porte, ed è l’unica cosa di cui possiamo essere certi, mentre l’orizzonte si oscura. Ma proprio perché siamo una cosa sola, volenti o no, con il resto dell’occidente, manifestiamo il diritto a quella libertà che tutti a parole rivendicano contro il nemico invisibile.

E questo vorrà dire, per cominciare, non accettare il ricatto dell’emergenza, combattere il razzismo anti-arabo e anti-islamico che comincia a dilagare, opporsi alle strumentalizzazioni della destra contro migranti, dissidenti e disobbedienti. Perché, siamone certi, la prima conseguenza di una dichiarazione di guerra è la restrizione delle libertà civili e il diffondersi del patriottismo esasperato che, come diceva il Dr. Johnson, è l’ultimo rifugio dei mascalzoni.