«È un colpo di stato». Lo striscione, issato nel primo pomeriggio davanti a Palazzo Grazioli viene subito staccato da una mano pietosa delle forze dell’ordine. Resta però un poster con un fotomontaggio: Berlusconi come Moro in mano alle Br. Roba da brivido, e non c’entra la tramontana. La piccola folla si raduna, bandiere e inni di Forza Italia come vent’anni fa, è un ringiovanimento di massa, ma in tantissimi hanno vent’anni di rughe in più. Un gruppo di giovanitalioti di Brescia, fra i 25 e i 28 anni, mostrano cappellini e gadget degli anni della fondazione, bambini prodigio., «Li abbiamo conservati».

Sono invece stampate di fresco le palette di plastica tipo giuria di quiz televisivo: «Decade la democrazia», «Arrestateci tutti».
Tutti, che però non sono moltissimi. Anche le forze dell’ordine hanno sopravvalutato l’evento. Si favoleggia di un corteo non autorizzato verso il senato, che però non partirà mai. Al comune di Roma avevano preannunciato 300 pullman e 10mila persone, ne arriva un quinto, poco più. «È un boicottaggio», tuona un comunicato all’ora di pranzo, «alle decine e decine di pullman in arrivo viene impedito di avvicinarsi al centro. È un gravissimo». Non è boicottaggio, è che nella Capitale funziona che i pullman non turistici si fermano all’Anagnina. E, alla stazione della metro, si è rotta un’incolpevole macchinetta dei biglietti. Da Pisa, da Alessandria, da Cosenza, da Reggio Emilia, da mezza Calabria, torpedoni gratuiti hanno tirato su chi vuole salutare il leader nel suo ultimo giorno da senatore e il primo da extraparlamentare.

Sarà il freddo, sarà la rabbia, ma ogni storia è storia di rancore. Una famiglia di Caltanissetta trapiantata ad Alessandria, due bambini al collo. Angelo spiega: «Io faccio il manovale, ho lavorato solo quando c’era il Pdl, da quando c’è un sindaco del Pd, niente». Inutile chiedere spiegazioni, la risposta di ordinanza è «colpa dei comunisti», leggasi Pd, «e dei democristiani», dice Massimo, pensionato del ministero dei Trasporti, viene da Roma Tuscolano. «Dal ’92 in questo paese non è cambiato niente», giura Giovanni, ex consigliere dc di Pisa, era al comune con un Enrico Letta all’esordio in politica. Undici lavoratori di Caserta e Napoli, consorzio Bacino per lo smaltimento dei rifiuti, tentano l’ingresso a Palazzo, vengono fermati. In tanti sono convinti che è l’ultimo giorno per chiedere qualcosa al leader decaduto (da senatore). Tira un vento polare, le bandiere di Forza Italia, strette intorno ai colli, non consolano, e anche le barzellette dell’ex premier – si ascolta dal maxischermo in cui va in onda l’autobiografia di una nazione, Silvio con Putin, Silvio con i bambini delle elementari, Silvio con la squadra dei fondatori – risultano per quello che sono sempre state, freddure.

A guardare bene, non ci sono neanche tutti i parlamentari che sono rimasti accanto all’ex premier. Svetta in prima fila il gineceo di Palazzo Grazioli, Daniela Santanché, Maria Stella Gelmini, Renata Polverini, Stefania Prestigiacomo, Michela Vittoria Brambilla. La folla riconosce solo i volti che vede in tv, magia del porcellum. Francesca Pascale, la fidanzata d’Italia, è tutta in nero perché – dirà poi lui dal palco – è un giorno di lutto per la democrazia».

Quando il Cavaliere scende – anche lui total black, in giacca e maglietta e un’invidiabile resistenza alla temperatura – la folla esplode. Il repertorio è un classico del ventennio. «Noi non viviamo nell’odio e nell’invidia come loro». Non è cambiato niente in questi anni: «loro» sono sempre gli stessi, i comunisti, i magistrati: «Persino la sinistra ortodossa nel ’78 ha accusato Magistratura democratica di avere abbracciato le idee estremiste delle Brigate Rosse». Brutta gente, la sinistra: il Pd «brinda per avermi mandato davanti al plotone di esecuzione» (le cronache parlano solo di brindisi dei 5 stelle), «Questa sentenza grida vendetta davanti a Dio e agli uomini. È basata su teoremi e congetture. Hanno calpestato la legge per farmi decadere. Faremo ricorso, e quando avrò l’assoluzione piena, cosa farete? Mi riporterete ad essere senatore? Mi risarcirete?».

Nel momento esatto in cui il senato vota, l’ancora leader sprona i suoi, e soprattutto se stesso, ad andare avanti: «Non disperate, saremo sempre in campo. Mi batterò anche fuori dal parlamento, come Grillo e Renzi». Si inerpica in spiegazioni didascaliche su come convincere «i moderati a votare uniti», il ragionamento non trascina. Va meglio quando nomina Alfano, «traditori, traditori», urla la folla, «ruvido ma efficace», si compiace lui dal palco. Altra impennata di entusiasmo quando annuncia che il presidenzialismo sarà la prossima frontiera della libertà.

Il Cavaliere vuole convincere e convincersi che il suo brillante futuro non è quello che ha dietro le spalle. Si ricomincia dall’inizio: di nuovo con i fondali con il cielo azzurro e le nuvolette. L’8 dicembre, mentre il rottamatore Renzi sarà incoronato nuovo leader del Pd, lui presenterà i primi mille club ’Forza Silvio, vecchi di zecca. Ogni nostalgia oggi è lecita, così da sotto il palco si alza anche un gruppetto di braccia tese. Berlusconi saluta, ringrazia, si concede ancora un bagno di folla da uomo libero. Ma non vuole andare via, e torna al microfono. «Andiamo avanti».

Avanti, ma dove? Non è neanche chiaro a cosa servano le fiaccole da processione per voto che vengono distribute a fine comizio. Si va al Senato? A Palazzo Chigi? Qualche volenteroso parte, ma nessuno lo segue e la processione si perde per le vie di Roma. E siccome anche il freddo è un traditore, si va a casa.