Il Napoli Teatro festival è certamente una delle manifestazioni teatrali più ricche e importanti del nostro paese. Garantito con fondi europei attraverso la regione Campania, è l’unico che in oltre un mese (cominciato la settimana scorsa si protrarrà fino a metà luglio) programma tutte le forme, le sperimentazioni e le ipotesi di spettacolo. Ruggero Cappuccio che da tre anni lo dirige dissemina in ogni angolo della città(e anche in regione in verità) decine e decine di titoli e attività, in centro come in periferia, rischiando semmai un qualche effetto bulimico. Naturalmente a colpire di più sono i nomi di maggior richiamo, numerosi, e compensati dai molti «tutto esaurito».

AD APRIRE il festival, con una serie di mostre e proiezioni a lui dedicate, è il ricordo di Eimuntas Nekrosius, il grande artista lituano recentemente scomparso. È andato in scena Zinc, probabilmente la sua ultima opera, sorta di testamento di pensiero più ancora che artistico. Lo spettacolo è dedicato alle opere della scrittrice bielorussa Svetlana Alexievich, premio Nobel nel 2015: in particolare al testo sulla campagna russa in Afghanistan e a quello sulle conseguenze dell’incidente di Cernobyl. Nel fluire delle scene del racconto, dove il personaggio della scrittrice è il filo conduttore di quelle vicende tragiche, si srotola una sorta di luttuoso continuum lungo gli anni 80, che accompagna la fine del sistema sovietico (e senza nessuna fraternità con Gorbaciov…). Sorprende lo spettatore affezionato di Nekrosius, che per tanti anni ha fatto volare la fantasia e le emozioni di tutti con immagini forti e misteriche quasi, che con la loro materialità parlavano però al cuore e alla ragione, l’uso qui di un linguaggio quasi «neorealista». A cominciare dal titolo (preso dalla Alexievich) dove lo Zinco è quello funerario che riporta in patria i cadaveri di una guerra insensata, ma lo scenario è quello di violenze e persecuzioni cui è sottoposto chi vuole svelare la verità. Allo stesso modo le conseguenze disastrose dell’avventura a Kabul e della deflagrazione atomica hanno una furia cronachistica davvero inusuale, seppure ornate di interrogativi e sospensioni assolutamente «nekrosiane». Ma insomma ne risulta l’esatto opposto di Pirosmani, la sua prima esplosiva apparizione in occidente, dove la coscienza civile di ognuno vibrava in sintonia con la poetica ribellione del pittore georgiano allo zarismo ottocentesco.

La ronda degli ammoniti, foto di Salvatore Pastore

DI SEGNO opposto invece il dono che ci fa Enzo Moscato con La ronda degli ammoniti, la sua ultima creazione. Titolo quasi esoterico per un viaggio ravvicinato attraverso una sua «classe morta» di una scuola elementare dei Quartieri spagnoli. Due date rimbalzano tra loro: il 1899 della generazione cui toccò andare a crepare adolescente nella Grande guerra, e il 1917 di Caporetto, in cui a Napoli si contarono molti suicidi infantili a scuola per paura di dover anch’essi andare in guerra. Questa «classe morta» ma vispissima, più indisciplinata e intraprendente di quella di Kantor, commuove e diverte. Un ensemble di una dozzina di attori, con Benedetto Casillo incantevole e sornione maestro, e lo stesso Moscato primo della classe nei suoi voli pindarici, e cui basta uno scialle e un cappellino per rivaleggiare con Maggie Smith. Tra risate e struggimento, quella ronda entra quasi nella biografia di ogni spettatore, tra la grazia e la crudeltà che Moscato conduce in modo sublime, da vero genio del nostro teatro.