Lo scorporo della rete di Telecom, deciso nei giorni scorsi dal vertice del gruppo, è una «bomba ad orologeria». Nell’immediato potrebbe persino apparire una mera modalità organizzativa, senza particolari conseguenze sulle persone in carne e ossa. Non è così. E il primo effetto si vedrà sulla pelle del lavoro vivo, con le ventilate (ma guai a parlarne in un’informazione sempre più omologata) migliaia di esuberi. E l’esito della storia sarà un’ulteriore desertificazione di un paese ormai al fondo delle classifiche sull’informazione.

Intanto, chiariamo che l’oggetto del desiderio è quello che viene chiamato dai mediologi il «capitale informazionale», vale a dire uno dei perni essenziali della tanto evocata stagione digitale, post-fordista, e così via. Insomma, come scrive nel suo interessantissimo «Avevamo la luna» Michele Mezza (Roma 2013, Donzelli editore) è «assente il presidio nei confronti delle nuove subalternità tecnologiche». Appunto. In Italia passa quasi inosservata la sorte del tessuto nervoso della comunicazione. Ancora non era successo in Europa, dove la rete è considerata il «gioiello di famiglia». Da noi non sono neppure chiari i contorni di questo scorporo, salvo la presenza nella nuova società della Cassa depositi e prestiti, vale a dire del risparmio postale. Chi e come vigilerà davvero sull’effettiva autonomia della struttura, sui nodi cruciali dell’accesso aperto e della sua «neutralità»? Qui siamo nel vivo della democrazia nell’era digitale e parlare solo di quotazioni in borsa o di aspetti tecnici è fuorviante. A chi finirà in mano l’«intelligenza connettiva»?

La vicenda ha origini più antiche e conviene ricordare un capitolo rimosso di questa storia, che attiene alla stessa privatizzazione di Telecom. Quando si accese la discussione al riguardo, nel 1996 con il governo Prodi, qualcuno di noi – certo con troppa timidezza, con il senno di poi – suggerì di mettere sul mercato solo i servizi, sui quali una corretta concorrenza avrebbe influito positivamente, lasciando alla mano pubblica l’infrastruttura. Prevalse, invece, la linea della privatizzazione tout court, per di più con la scelta di costruire il «nocciolo duro» della società in luogo di un azionariato diffuso. E lì si vide da vicino, con buona pace di Castells e degli altri studiosi della società dell’informazione, cosa è realmente il capitalismo italiano, da Fiat a Generali, che considerarono il settore in maggiore ascesa del fine secolo un orpello marginale. Come dimenticare gli sforzi e l’amarezza di Romano Prodi o le riflessioni di Guido Rossi diventato presidente della nuova azienda. Privatizzare senza capitale è stato il tratto patologico di quella stagione, con un colpo letale allo sviluppo italiano.

Quando si dice che la sinistra sbaglia sempre, anche il capitalismo non scherza. Il paese che aveva l’Olivetti, l’alta definizione televisiva e pure l’avvio sperimentale del digitale, nonché le culture più evolute dell’epoca elettromeccanica (con straordinari Politecnici), ora non ha più neppure un’industria manifatturiera. Pur con la diffusione di un numero di telefoni cellulari superiore alla popolazione. O con le fumose evocazioni dell’«Agenda digitale». Torniamo a Telecom: seguì Rossignolo, poi arrivarono i «capitani coraggiosi» e lasciamo perdere. Fino ai generosi tentativi di salvataggio di Bernabé.
Siamo, però, al tornante finale di una lunga sequenza colpevolmente compromessa. E ora si compie l’ultimo atto, persino senza clamore. Eppure, il dibattito sui beni comuni è molto vivo. E la rete è, deve essere, proprio un bene comune. Chi può batta un colpo. E non si dimentichi che esiste ancora la «golden share» dello stato.