«Ammazza oh! Driverless!». «Che significa, mamma?». «Significa che nessuno la guida, è automatica». La mamma lo tiene d’occhio, il suo bambino. Non era ancora nato quando, nel 2006, vennero aperti i primi cantieri della linea C della metropolitana di Roma che viene ufficialmente inaugurata in una domenica soleggiata di mezz’autunno. L’agognata terza linea parte dal piazzale in mezzo all’agro romano della fermata «Pantano». Ci troviamo nel territorio del comune di Monte Compatri, oltre la periferia a sud est della capitale. Il percorso dovrebbe attraversare il centro e condurre fino a piazzale Clodio. Se la storia di Roma, come testimoniano i tanti assedi delle mura del centro storico e la proliferazione della città infinita oltre la barriera del Grande raccordo anulare, è storia di periferie locali e globali che cercano di passare dal centro, di attraversarlo a volte allo scopo di conquistarlo a volte di mostrare l’oscena bellezza dei margini, questa vicenda della nuova linea della metropolitana è il segno che quella storia va rinnovandosi. In realtà viene aperto al pubblico il primo tratto, quello che da questa stazione nel mezzo dell’agro romano e delle sue disordinate edificazioni, arriva fino alla fermata denominata «Parco di Centocelle».
Ad inaugurare il ramo di metropolitana che conduce dalla periferia estrema alla periferia in quindici fermate, un esercito di curiosi che si scambiano informazioni, scattano fotografie e girano video col telefonino. Sono gli abitanti dei quartieri che cercano di immaginare la città che sarà, i confini che verranno oltrepassati e i muri invisibili tra il centro e le borgate che, grazie alle corse sotterranee, forse verranno abbattuti. Il fatto che la guida sia, appunto, «automatica» implica che ci sia un vetro divisore tra il binario e la piazzola di sosta. Quando il convoglio si ferma le porte d’accesso si posizionano all’altezza dei varchi automatici. Qualcuno ironizza sul guasto che ha colpito la primissima corsa, quella delle 5.30 del mattino, e che ha prodotto i primissimi undici minuti di ritardo della linea C. La gente prende posto scambiandosi guardi d’intesa, si respira un silenzio irreale e persino un pizzico di ansia.
In effetti, non è da tutti saltare in groppa alla principale delle «opere strategiche». La stanno costruendo dal 2006, quando l’intera opera venne affidata all’Associazione temporanea d’impresa che, con base d’asta 3 miliardi di euro, si aggiudicò il lavoro per 2 miliardi e 700 milioni. Ovviamente si tratta di quattrini pubblici: a carico dello Stato per il 70 per cento e di comune di Roma e Regione Lazio, che contribuiscono rispettivamente per il 18 e il 12 per cento dei costi. Ad oggi, però, le larghe intese edilizie cui aderiscono Astaldi, Vianini, Ansaldo, Cooperativa Braccianti e Muratori di Carpi e Consorzio Cooperative e Costruzioni, hanno speso quei 3 miliardi di partenza per il solo tratto che collega da Pantano a San Giovanni.

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La metropolitana che viaggia senza pilota, pare aver percorso la strada dei lavori sottoterra senza guida. Tutto ciò grazie a quel lascito dell’era berlusconiana chiamato «Legge Obiettivo», che consente di assegnare all’impresa appaltante il ruolo di controllore generale: il soggetto che costruisce è lo stesso che sorveglia, gestisce la filiera e consegna «chiavi in mano» l’opera. «È come se affidassimo ad un costruttore una casa di tre piani per 400 mila euro – spiega Riccardo Magi, consigliere comunale radicale eletto nella lista Marino – Come se questo allo scadere del termine avesse costruito solo un piano, e ci chiedesse altri soldi per proseguire i lavori». Dunque, eccoci ad esplorare questo primo piano, mentre al piano superiore campeggiano sacchi di cemento armato e sbucano tondini di ferro.
«Ma io quindi con questa dove ci arrivo?», chiede un pensionato al giovane controllore agghindato di tutto punto, mentre il treno prosegue la sua corsa oltre la fermata della borgata Finocchio. «Per ora a Centocelle, ma nel giro di un anno proseguirete», spiega più o meno quello senza troppa enfasi. Il cronoprogramma prevede che il capolinea arriverà fino a piazza Lodi. Da lì, per qualche tempo, ci sarà una navetta che porterà fino a piazza San Giovanni, dove passa un’altra linea della metropolitana, la A. «Mia figlia studia archeologia alla Sapienza, dice che a San Giovanni le due linee non si incroceranno perfettamente perché le due talpe scavatrici non si sono incontrate», dice una donna. «Hanno fatto male i calcoli«, ridacchia. Ai cinefili verranno in mente le scene della gigantesca trivella che lavora per la metropolitana già nel 1972 nel film «Roma», nel quale Federico Fellini affrontò il tema della città eterna e del suo ingombrante passato. Sul mancato incrocio di San Giovanni, ennesima vicenda simbolica di questa storia sotterranea di Roma, forse non sapremo mai com’è andata. Di sicuro sappiamo che per arrivare fino a Ottaviano servirà un altro miliardo e duecento milioni. Sono in tutto 45 le varianti apportate al progetto originario, per i più svariati motivi: dalle cause di sicurezza ai controlli antimafia. Spesso sono stati tirati in ballo gli «inconvenienti archeologici». Possibile che nessuno avesse previsto cosa sarebbe spuntato dal sottosuolo della città eterna? In verità qualcuno ci aveva pensato: per la linea C veniva speso il termine evocativo di «metropolitana archeologica», con tanto di stazioni-museo per esporre i ritrovamenti. Ma non ci sono più i soldi.
Il treno corre in superficie, prima di riaffondare nel sottosuolo costeggia le «torri» di Tor Bella Monaca. Qualcuno sorride, perché i nonluoghi della alienazione urbana, posti passati in rassegna soltanto nei trafiletti di cronaca nera e negli elenchi delle marginalità, adesso paiono improvvisamente ribattezzati dalle fermate della metropolitana come «nomi di luogo», spazi finalmente pronunciabili, territori riconoscibili. «Ci sono le molte periferie autosovrappostesi al corpo della città, senza che noi le conoscessimo. Quelle politicamente decise e costruite, ma non urbanisticamente risolte», per dirla con le parole dell’urbanista Antonello Sotgia. Tanto che una ragazza viene presa da spaesamento scorrendo il pannello delle stazioni: «Forse ci sono troppe fermate, che bisogno c’era di farne una anche alla Borgata Finocchio?».
Si arriva a destinazione alla stazione «Parco di Centocelle», che non si trova in mezzo al verde ma all’incrocio trafficatissimo tra via Casilina e via Palmiro Togliatti. Questa volta la conquista del centro non è riuscita, forse il motore di contraddizioni e contaminazioni che agita la città tra downtown e periferia da qualche tempo s’è inceppato, generando isole-vetrina per turisti e arcipelago di ghetti per troppi cittadini. Un uomo emerge dalle scale mobili, si copre la fronte appena viene investito dal fascio di luce del sole e fa sfoggio del fatalismo di cui sono capaci solo i romani: «Tempo du’ mesi e qui se smontano tutto, stai a vedere».