«Mi sento come se avessi 18 anni. Non sono cambiato, adesso mi fa solo un po’ male un’anca. Mio padre ha suonato finché è morto. È qualcosa con cui nasci. O sei rock’n’roll o non lo sei». Era il 1995 e Eddie Van Halen a 40 anni compiuti tracciava già il bilancio di una carriera stellare. Si era da poco tagliato i capelli, presentava un nuovo album della sua band, i Van Halen, e guardava con fiducia a una nuova fase della sua carriera. Era un momento di svolta. Il grunge e la musica alternativa avevano cambiato il panorama musicale e i Van Halen erano considerati una band storica. Eddie era osannato come uno dei più importanti chitarristi del rock. Pochi anni dopo annunciò di essere in cura per un cancro alla gola. Iniziava una lunga lotta destinata a durare vent’anni e, dopo l’illusione della guarigione, conclusasi tragicamente lo scorso 6 ottobre.
Eddie Van Halen si è spento in un ospedale di Santa Monica a 65 anni. Ma la sua musica non si spegnerà. Se qualcuno avesse qualche dubbio basta guardare la tracklist iniziale dell’omonimo album di debutto dei Van Halen datato 1978: Running with the Devil, Eruption, You Really Got Me (una cover dei Kinks) e Ain’t Talkin’ ‘bout Love. Quattro brani che dichiaravano che il vecchio rock chitarristico era finito e iniziava una nuova era. Gran parte del merito dipendeva proprio dallo stile di Eddie.

UN OLANDESE A L.A.
Nato ad Amsterdam nel 1955 era figlio di un musicista. Con la famiglia si trasferì in California a 7 anni, iniziando a suonare pianoforte. Negli anni dell’adolescenza abbandonò Mozart, scelse la chitarra elettrica, mentre il fratello maggiore Alex divenne un batterista. Nel 1972 i due decisero di fondare un gruppo rock chiamato Genesis, ma ovviamente il nome apparteneva già ad altri. Nel ’74 i fratelli Van Halen si unirono al cantante David Lee Roth e al bassista Michael Anthony in un quartetto che portava il loro nome. La band si fece strada nella scena di Los Angeles. Li notò Gene Simmons dei Kiss che finanziò un loro demo, ma molte case discografiche li snobbarono. Erano gli anni della new wave, del punk, della discomusic, l’hard rock sembrava la musica dei fratelli maggiori, ma i Van Halen non erano degli imitatori dei Led Zeppelin e si conquistarono un successo crescente suonando nei club losangelini.
La Warner decise infine di scommettere su di loro e i quattro registrarono in tre settimane il loro debutto che verrà pubblicato nel febbraio del ’78. In otto mesi diventerà disco di platino negli Usa, superando negli anni la soglia dei 10 milioni di copie vendute. L’album Van Halen è stato uno di quei momenti in cui il rock si biforca. Eddie introduceva un nuovo modo di suonare la chitarra. Istintivo e fuori dagli schemi, nonostante l’estrazione classica era incapace di leggere la musica sugli spartiti (disse una volta: «Ho sempre ingannato i miei insegnanti di pianoforte») anche per questo non aveva paura di sperimentare nuove tecniche e nuovi linguaggi. Come Hendrix capì che lo strumento poteva essere modificato, distorto, suonato senza rispettare i canoni. Creò un suo strumento, la «Frankenstrat» cioè una creatura di un Frankenstein votato alla liuteria che univa il calore e la raffinatezza della Gibson alla fisicità e all’estetica della Stratocaster. Introdusse il tapping suonando la chitarra con entrambe le mani sulla tastiera, immergendosi in assolo possenti, veloci, aggressivi e sopra le righe.
Sin dall’apoteosi strumentale di Eruption fu chiaro: Eddie era destinato a diventare il primo «guitar hero» unendo tecnica, impatto scenico e una buona dose di guasconeria. Ma l’alchimia dei Van Halen era data anche dalla solidità della sezione ritmica e soprattutto dal carisma dirompente di David Lee Roth che sembrava portare lo stile elegante e un po’ decadente del glam nell’era dello sfrenato edonismo californiano che avrebbe segnato gli anni Ottanta. I Van Halen erano il perfetto equilibrio tra il volume e la pienezza di suoni hard rock, l’intensità e le distorsioni dell’heavy metal, la spensieratezza e il divertimento del pop. Il tutto trovò la sua sintesi perfetta con l’album 1984, il quinto della loro carriera, uscito proprio nell’anno del titolo e lanciato da un singolo come Jump!, una delle canzoni più celebri del decennio. Per quel brano Eddie Van Halen tornò alla sua prima vocazione, le tastiere, e confezionò, tra l’orrore di molti puristi, un perfetto hard rock in cui trionfava un suono di synth che all’epoca era sinonimo di pop commerciale. L’album li farà conoscere a un nuovo pubblico e trasformerà il quartetto in una delle rock band più popolari del pianeta. L’ellepì non raggiunse il numero uno negli Stati Uniti solo perché la vetta era occupata da Thriller di Michael Jackson, a cui, peraltro, Eddie aveva contribuito con lo strepitoso assolo nel brano Beat It.

FOLLI RICHIESTE
I Van Halen divennero il simbolo stesso del rock anni Ottanta: epici i loro show e altrettanto carichi di leggenda i loro eccessi. Fanno parte del mito i party dopo le esibizioni e le loro folli richieste agli organizzatori dei tour. L’apice di 1984 fu anche l’inizio di una crisi tra Eddie e David Lee Roth. Entrambi si sentivano i padroni della band, musicalmente guardavano in direzioni diverse, le dipendenze e l’alcolismo del chitarrista non contribuirono a placare gli animi. Il cantante lasciò per intraprendere una carriera solista. Eddie rinnegherà anche la loro amicizia tempo dopo dicendo: «Forse siamo stati amici, ma non è mai stata una cosa profonda. Non penso che lui fosse mai stato sincero. Non ho mai sentito alcuna connessione. È possibile che siano state le sue insicurezze a spingerlo ad agire in modo così egoistico». Ma in realtà era un amore-odio destinato a proseguire e a diventare parte delle grandi rivalità fraterne del rock.
I Van Halen voltarono pagina. Nel ruolo di frontman venne reclutato Sammy Hagar che non aveva il carisma del suo predecessore, ma aveva voce e talento. In quel periodo avvennero le sporadiche apparizioni italiane della band che nella sua storia ha tenuto nel nostro paese solo due concerti nel ’93 e due showcase nel ’95. Un presenza come headliner al Monsters of Rock di Torino nel 1998 venne annullata per un incidente occorso ad Alex Van Halen. La band con Hagar realizzò quattro album di successo in cui però la formula consolidata diventava sempre più maniera. «Tutti i dischi dei Van Halen per me sono dischi solisti» dirà Eddie nel ‘95 dopo la pubblicazione dell’album Balance. Il quartetto ormai era una sua esclusiva creatura. Anche Hagar iniziò a sentirsi di troppo e abbandonò nel 1996. «Quando io dicevo nero, Eddie diceva “bianco” – rivelerà il cantante -. Se lui diceva “bianco” e io dicevo “Ok, bianco” lui diceva “No, meglio nero!”».
I Van Halen tentarono una reunion con David Lee Roth, per rivolgersi successivamente al cantante degli Extreme Gary Cherone con cui realizzarono un solo, sfortunato, album nel 1998. Poi arrivò per Eddie, fumatore accanito dall’età di 12 anni, la diagnosi di tumore, seguita da un incoraggiante periodo di remissione. Nel 2007 fu ri-annunciato il ritorno di David Lee Roth. La band entrò a far parte della Rock’n’roll Hall of Fame e tornò sul palco producendo anche un disco nel 2012 che rimarrà il loro canto del cigno. Il ritorno del tumore ha posto fine a uno dei grandi innovatori della chitarra rock. «Che grande e lungo viaggio è stato…» ha commentato il suo nemico fraterno David. Oggi una copia della chitarra Frankenstrat è conservata presso il National Museum of American History di Washington. Per ricordare Eddie Van Halen basta una risposta che diede quando, nel momento di grande successo dei concerti in acustico da parte di musicisti rock, gli chiesero se fosse interessato. «No – disse -. A me piace suonare a tutto volume».