Nel 1992, Quentin Tarantino aveva dimostrato il suo amore per l’hard boiled iperbolico dello scrittore (ex criminale ed ex residente di San Quentin) Eddie Bunker scritturandolo nel ruolo di Mr. Blue in Reservoir Dogs (Le iene, in Italia). Per ricambiare la cortesia, qualche anno dopo, strizzando l’occhio al titolo del film di Tarantino, Bunker avrebbe intitolato il suo nuovo romanzo Dog Eat Dog (Cane mangia cane, Einaudi, 1999).
Da quel romanzo, su sceneggiatura di Matthew Wilder, è tratto l’ultimo lavoro di Paul Schrader, un oggetto di elettrica pulp fiction (anche se la sua darkness totale ricorda più un salto nel vuoto come Killer Joe, di Friedkin, che le geometrie di Le iene), animato dalla furiosa energia intellettual/visiva del regista di Light Sleeper e American Gigolo.

Reduce da un film che gli è stato scippato in fase di montaggio (Dying of the Light –da cui non poté togliere il nome per via di una clausola di contratto) e dalla stranezza sublime The Canyons (uno dei migliori film sul cinema degli ultimi anni), Schrader è qui alle prese con un progetto più «normale», con un budget che non viene da una campagna Kickstarter, due attori di nome, con cui ha già lavorato bene (Nicolas Cage e Willem Dafoe) e una troupe composta interamente di giovani alle prime armi.

Sono esponenti di quella che il regista nel press book chiama: «la generazione post-regole; non cercano di trasgredire le regole perché non sanno nemmeno che esistono. Ho detto loro: La cattiva notizie è che non abbiamo i mezzi per funzionare come uno studio. Quella buona che possiamo il fare il film che vogliamo. Sorprendetemi, l’unica cosa proibita è la noia».
A partire dal massacro rosa shocking con cui si apre il film, annoiarsi è impossibile in questa scommessa su un genere/storia molto conosciuti (tre poco di buono escono di prigione e, invece di redimersi,finiscono malissimo) che Schrader affronta con l’entusiasmo di un ventenne e la voglia di buttare a mare molte delle sue stesse cifre stilistiche. Almeno in apparenza, infatti, nessuno dei suoi film da regista, o da sceneggiatore (se non forse la discesa agli inferi di Hardcore, scritto però da John Milius) anticipa il mix di anarchia (formale e dello spirito) di Dog Eat Dog, i suoi bruschi scarti tonali e visivi, lo humor cattivissimo, l’uso spinto del colore, gli sconfinamenti (quasi grafici) nel fumetto, l’interpretazione sopra le righe di Dafoe, quella più interiore di Cage… E, in chiusura, l’apparizione del fantasma di Humphrey Bogart (un’invenzione di Cage, che non era nello script). Il film è un oggetto di puro id, un invito ad abbandonarsi al guilty pleasure, che Schrader coreografa alla quasi-perfezione.

Quando Troy (Cage), Diesel (Christopher Matthew Cook, una rivelazione) e Mad Dog (Dafoe) si ritrovano fuori dal carcere il loro sogno – non molto originale – è quello di ritirarsi alle Hawaii, con i proventi del classico, ultimo-grande-colpo. La misura del loro disconnect con la società che li circonda è chiara dalla prima scena, in cui Mad Dog, in un appartamento dove è tutto rosa confetto, ammazza brutalmente la sua grassa fidanzata e la figlia teen ager di lei, perché è incapace di farle smetter di strillare quando annuncia che sta per andarsene.

Mad Dog è il più visibilmente folle dei personaggi (attenzione alla scena in cui, in un night club, si toglie scarpe e calze per ritrovare la sensazione del pavimento della prigione sotto i piedi), ma l’incapacità di funzionare nella realtà circostante è un tratto comune a tutti e tre. L’effetto ricorda la slapstick del cinema muto. E i Looney Tunes.
Il colpo che dovrebbe tenerli per sempre lontano dalla prigione arriva dall’incontro con un capo mafia greco (lo stesso Schrader, che dice di aver offerto il ruolo invano a Chris Walken, Michael Douglas, Martin Scorsese, Nick Nolte e Quentin Tarantino) che li assolda per rapire il figlio di un rivale e riportargli un grosso riscatto. È con quasi doloroso buon umore che i tre si sottopongono a quello che – lo sanno anche loro – non può che risultare in un rituale del fallimento.
Il rapimento va così male che questi three stooges del crimine uccidono per sbaglio l’uomo a cui avrebbero dovuto estorcere i soldi. Se non fosse perché Mad Dog non sta zitto un attimo, la scena durante la quale devono fare sparire il cadavere sarebbe Buster Keaton.

Insomma, Schrader e i suoi complici non si risparmiano nulla, incluso un finale che potrebbe – o meno – essere ambientato nell’aldilà.
Presentato come film di chiusura della Quinzaine cannense 2016, Dog Eat Dog ha il sapore di un gesto di liberazione, quasi fisica. Con esso Schrader si dimostra il più tenace, adattabile e ostinato dei grandi della nuova Hollywood, marginalizzati da un cinema che ha sempre più paura del mondo, di se stesso e della sua capacità di reinventarsi.