Sembra proprio che, dopo la crisi della primavera scorsa, i fatti diano di nuovo ragione al ministro della Salute Speranza, che avrebbe voluto un Dpcm più rigido e più sostanzioso. La strategia che mira ad allarmare molto ma proibire poco, adottata con le ultime norme in buona parte perché il governo riteneva di non avere il consenso necessario per andare oltre, non basta e non basterà. Non si tratta già più di capire se arriverà un nuovo Dpcm ma di quando arriverà e di quanto sarà rigido, stavolta nella sostanza.

La bussola è la Lombardia. Chi più di tutti restituisce il clima che si respira nelle amministrazioni locali e nel governo centrale dopo la mazzata di ieri, con i morti più che raddoppiati, è il sindaco di Milano Sala. «Domani – diceva ieri – potrebbe essere il giorno per decidere di fare qualcosa in più. Non una chiusura estrema, né interventi radicali che vadano al di là del Dpcm. Ma qualcosa bisogna fare e ci sentiremo con il presidente Fontana per trovare una sintesi». Sibillino, ma quando arriva al nodo più intricato, la scuola, si capisce meglio cosa intenda. Nessuna «didattica totale a distanza». Però la si potrebbe «associare alla presenza». È lo stesso umore che rimbalza da un palazzo all’altro nella Capitale. Ingressi scaglionati. Classi che non vanno sempre in aula l’intera settimana ma per un paio di giorni, a turno, frequentano a distanza, forse con doppi turni.

Bisogna avere prima ragione delle resistenze della ministra dell’Istruzione ma il tema posto dalle Regioni con Speranza favorevole è al centro del tavolo. La corsa dell’epidemia lo spinge con massima forza. In realtà il problema, secondo i dati di cui dispone il governo, è più vasto. Se infatti il grosso dei contagi si produce in famiglia, è anche vero che a innescarlo sono i rapporti amicali, quelli in cui quasi automaticamente si abbassano guardia e mascherine. Comportamenti difficilissimi da normare senza ricorrere alla chiusura totale, al momento considerata ancora un rimedio peggiore del male perché l’obiettivo di fondo resta difendere a tutti i costi produzione e scuola. Anche a costo di sacrificare tutto il resto.

Prima di muovere ulteriori passi, però, il governo aspetta di verificare i dati emersi negli ultimi giorni. Il bicchiere, secondo molti, è mezzo pieno. I contagi aumentano ma non significa necessariamente che l’epidemia dilaghi, data la distanza non solo tra il numero dei tamponi che si effettuano oggi e quelli della primavera ma anche la loro qualità: allora limitati ai casi gravi e conclamati, oggi a tappeto. Ma neppure i più ottimisti si nascondono che se la corsa iniziata dieci giorni fa proseguirà a questo ritmo o peggio un nuovo intervento sarà indispensabile. Nell’arco di un paio di settimane al massimo.
Anche perché i segnali da allarme rosso si moltiplicano. Il ministro degli Esteri tedesco Haas assicura che la chiusura delle frontiere in Europa non si ripeterà ma la Danimarca «sconsiglia» ai suoi cittadini di visitare l’Italia se non per motivi essenziali e il Regno Unito impone due settimane di quarantena a chiunque arrivi dall’Italia. Il momento è decisamente buio. Per fortuna c’è Di Maio, che una parola di rassicurazione la trova sempre: «I dati di oggi preoccupano ma entro l’anno arriverà il vaccino e contrasterà in modo strutturale la pandemia». Non è vero, ma che importa? Fa sognare per un attimo e nella visione del ministro questo è il compito di un buon politico.