Eccoci qui, siamo venuti tutti al nostro funerale. Rosso. Laico, senza preti buoni o cattivi, di una forza mai vista. Comunista, ma come direbbe Baudelaire in un accesso di disperazione: «Avviso ai non comunisti: tutto è comune, perfino Dio». Come grida Jacopo Fo, una furia: «Ricordatevi che Dio c’è ed è comunista, ed è anche femmina: e possiamo stare certi che questo mondo lo cambieremo, grazie compagni, grazie compagne». È l’urlo di un uomo ferito ma che ha ancora la forza per crederci, non è solo una battuta per farci il titolo, è qualcosa di più di un funerale laico e basta.

Il funerale di Franca Rame è un regalo che Milano si merita, e forse non si merita più. Una cosa da fare invidia, a tutte le chiese. Per non restare tramortiti, tristi, per dimostrare che ce lo siamo meritati uno spettacolo come questo, adesso dovremmo riuscire ad avere la forza di quei due laggiù in fondo, il figlio e il marito, davanti all’ingresso del Teatro Strehler. La loro lezione è dura da mandare giù con un nodo in gola. Rabbia, fiducia in quello che sarà e gran classe da maestri di fronte alla morte: è naturale che agli spettatori manchino le parole.

Tutti hanno gli occhi lucidi, tutti hanno qualche ricordo da sussurrare all’orecchio del vicino, e tutti in cuor loro temono di non essere più all’altezza di una storia come questa. Salutano sventolando qualcosa di rosso. Una donna resta per un’ora con le mani alzate per esporre il suo cartello: «La miglior donna che ci ha rappresentato». Qualcuno piange. I «compagni del movimento», pochi, sono saliti sul tetto con il loro striscione. E ogni tanto si leva un canto timido che salendo restituisce un po’ di vigore alla piazza, ma ogni gesto come da copione sembra quasi fuori luogo di fronte a una scena così forte.

Forse è il pudore, la sensazione di appartenere a un mondo che si sta estinguendo per colpe anche nostre – per un giorno tutti vestiti di rosso solo perché l’ha chiesto lei. I pugni chiusi. Qualcuno ci prova, questa è storia, ma non è giornata, anche se alla fine di tutto – dopo la canzone preferita di Franca Rame, Bella ciao, dopo l’Internazionale suonata dalla Banda degli Ottoni – viene la voglia di rompere il silenzio, e tornare a raccontare. Un altro regalo prezioso, da scartare più avanti nel tempo.

Ecco il tipo di avvenimento che per una forza misteriosa non può essere contenuto per intero nel momento stesso in cui accade: è già proiettato nel futuro, perché quelli che c’erano se lo ricorderanno per sempre. Un vero peccato per gli assenti ingiustificati, avrebbero dovuto portarci le scuole, falsificare le firme, inventarsi una manifestazione, rubare un venerdì di storia al calendario scolastico, fare un gesto di semplice ribellione, perché non capitano tutti i giorni lezioni di questo genere. Ci sono ragazzi e ragazze che oggi si chiedono chi era Franca Rame, e non tutti avranno la fortuna di sentirselo raccontare da suo figlio, Jacopo Fo, e da suo marito Dario.

E anche dal sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, uomo avaro di parole – lo ammette lui stesso – costretto questa volta a commuoversi, e forse anche a stupirsi: «L’altra sera sono andato anche io a trovare Franca Rame, era tardi, ho visto tante donne e molto rosso, ho letto dei fogli con parole che mi hanno commosso, io ho lasciato un cuore rosso, il cuore di Milano… quanti ricordi, quanti cortei, quanta indignazione, è questa la Franca che piangiamo, e che rimpiangiamo». La Franca, con la voce rotta e l’articolo davanti, come dicono i milanesi, una sgrammaticatura affettuosa che riconsegna il sindaco alla sua città, e viceversa.

Ma il cuore rosso dei milanesi deve ancora sussultare, perché adesso tocca a Jacopo Fo. Lui lo sa, ma in questi giorni centinaia di persone glielo hanno ricordato, sua madre è stata grande perché «ha fatto qualcosa per gli altri». Ci pensa, ripensa alla sua infanzia, ai suoi sedici anni, poi esplode in un pianto: «Mi diceva io non posso fare altro, non si può lasciare che gli uomini vengano trattati così». Ricorda, i matti legati al letto, i compagni massacrati, si indigna, la piazza non riesce a respirare strangolata com’è da una sensazione di rabbia, impotenza e gratitudine: «Quando sento compagni delusi che mi dicono che non abbiamo combinato niente dico non è vero (è un urlo, ndr), quarant’anni fa era peggio e abbiamo lottato… Mia madre è stata rapita dai fascisti, e alcuni ufficiali dei carabinieri brindavano quando fu stuprata, ed ebbe il coraggio di raccontare questa storia, e non fu facile per lei che era cattolica… Allora non c’erano i computer e c’erano centinaia di compagni in carcere, Bolzaneto era tutti i giorni». Una pausa non studiata, e poi uno sfogo, che è un invito a riprovarci: «C’è una forza straordinaria in questo paese, cazzooo!».

Sì, sua madre era bella: «Ma mia madre rompeva i coglioni» e «per i fascisti era intollerabile che ci fosse una donna, bella tra l’altro, che osava denunciare quell’orrore…». Qualcuno sibila «bastardi», poi arriva la notizia che Dio è comunista, ed è un altro invito a non arrendersi, come a dire che qui in questa piazza – se si ritrovassero le forze – non si sta celebrando un funerale.

Alla fine, prima dell’ultimo saluto da brivido – «Ciaaaao» – tocca a Dario Fo volare alto ritornando al teatro, la cosa più bella che lui e sua moglie hanno fatto insieme. Lo chiama commiato (il testo è stato pubblicato sul blog di Grillo, l’amico è venuto a trovarlo con una rosa rossa e poi ha lasciato subito la piazza per togliere il disturbo). La recita è un omaggio alla capacità di scrittura di Franca Rame, come dire che qui non c’è solo una grande donna dietro un grande scrittore ma anche una grande scrittrice davanti a un grande uomo.

E poi, dice Fo, la loro commedia di maggior successo – più di 700 edizioni nel mondo – è Coppia aperta, quasi spalancata: «Ebbene l’autrice unica di questo testo è Franca». Quando comincia la recita, è un po’ di sollievo per tutti. Il racconto si basa su alcuni testi apocrifi dell’Antico Testamento scoperti da Franca Rame, una Genesi come non ce l’hanno mai raccontata. C’è un Dio che crea prima la femmina e poi il maschio, un rincoglionito spaventato dalla vita e dalla danza erotica di quella strana creatura gioiosa che lo domina con leggerezza, e qui Dario Fo gorgheggia, mima una danza, è la prima donna che vuole fare l’amore: il pubblico stenta a crederci. Poi Eva e Adamo scelgono da quale albero nutrirsi, mangiano la mela, e scelgono bene: meglio conoscere il dubbio e l’amore e poi morire piuttosto che vivacchiare per l’eternità.

La recita è perfetta, la prima in pubblico adesso che Franca non c’è più. La morte non deve far disperare, è la lezione di Fo, a patto che la vita sia servita a scoprire «questo mistero dell’amore anche se poi c’è la fine». A lui è capitato così. A Franca Rame anche. Si vede che sono sereni per questo. Tutti li invidiano, e tutti li ringraziano.