Il congresso del partito democratico si svolge con la triste novità dei tesseramenti gonfiati. C’è sempre una prima volta e potrebbe coincidere con l’ultima. Dopo l’8 dicembre l’esempio di Romano Prodi potrebbe fare scuola. In un’organizzazione tanto de-moralizzata è difficile continuare a stare. Dopo la scadenza delle primarie una valutazione definitiva si renderà necessaria.

Non è in discussione tanto e solo una linea politica, quanto la stessa antropologia di un soggetto politico ormai logoratissimo. Un correntismo esasperato (ed esasperante) ha portato il vecchio apparato un po’ chiuso e un po’ autoritario a slabbrarsi e ad offrirsi alle scorribande di lobby e gruppetti di potere. Una “cittadella” centrale è depositaria di un “linea”, spesso confusa, e ai referenti locali si affida (in franchising, ha giustamente annotato Walter Tocci) la pratica quotidiana. E’ l’anticamera dell’implosione, comunque è esattamente l’opposto dei caratteri sognati all’origine del partito.

Nel 2007, all’atto di fondazione, si poteva sperare che quella fosse la linea difensiva per evitare il tracollo del sistema dei partiti nell’area progressista. Ora, dopo che quell’impostazione è stata trasformata in un corpo dalla fisionomia incerta e in una confederazione di fazioni , non serve una cura di mantenimento. Va immaginato un big bang, vale a dire una ri-costruzione, che rompa omologazioni e pensieri unici. La mozione e la candidatura di Pippo Civati significano anche simbolicamente la rottura con modelli vecchi e usurati. Può essere l’embrione di un modello alternativo, da costruire sulla base di un dibattito vero. Un software aperto, dentro e fuori i confini del partito, raccogliendo le istanze che mossero tra l’altro occupypd. Le recenti manifestazioni per la difesa della Costituzione e quella dei movimenti per i diritti sociali (ovviamente, quest’ultima, al netto della rabbia vandalica) rappresentano tangibilmente un tratto dei riferimenti cui guardare. O il Pd volgerà lo sguardo lì (anche lì), oppure il suo destino sarà quello di agonizzare in un’ulteriore svolta moderata. Singolare che il “predestinato” Matteo Renzi parli di maggioritario e abbia tanta voglia – invece – di neo-centrismo.

Tuttavia, berlusconismo e grillismo, con le ovvie profonde differenze, non avrebbero avuto tanta fortuna se fossero esistite una vera destra europea e una reale sinistra riformista. Non è nostalgia, bensì un invito a non rimuovere davvero gli ultimi vent’anni. E attenzione a tracciare una riga conclusiva su un ventennio che trasuda tuttora dalla cultura di massa, e che non è interrotto dalla caduta nelle polveri del Berlusconi onnipotente (altro è il berlusconismo, assai radicato nel ventre della società italiana) o dalle divisioni del Pdl. Le “larghe intese” sono diventate un’ideologia, inutilmente negata dal complesso della tifoseria governativa. La storia non è stata sempre uguale. Certo, vi fu l’eccezione fertile e prefigurante dell’”Ulivo”, ma poco durò e quello spirito ingiallì già due anni dopo il suo sorgere, per trovare la sepoltura con l’emblematica e squallida “carica dei 101” contro la candidatura di Romano Prodi alla presidenza della Repubblica. Il dramma del conflitto di interessi irrisolto è il manifesto di quel compromesso basso.

Si tratta, nel congresso, di porre con nettezza i punti salienti del confronto attuale: una politica internazionale pacifista ed europea (il rapporto Nord-Sud, la tragedia dei migranti, il Medio oriente e la dimenticata questione palestinese, le assurde missioni militari all’estero); il reddito di cittadinanza, illustrato al recente convegno della Fiom sul welfare; la valorizzazione dei beni comuni e i nuovi diritti umani e di cittadinanza, a cominciare dal riconoscimento della nazionalità italiana a chi nasce sul nostro suolo; la costituzionalizzazione dell’uguaglianza digitale; la laicità con il pieno riconoscimento delle unioni omosessuali e del testamento biologico; la salute; le politiche ambientali con la messa in sicurezza del territorio e delle infrastrutture; l’investimento strategico sui beni e sulle attività culturali nonché sui saperi (dall’istruzione pubblica alla ricerca), veri elementi identitari dell’Italia; la normativa sul conflitto di interessi e su una nuova Rai pubblica con il coinvolgimento dei cittadini nella gestione; l’abolizione del “Porcellum”; un’adeguata tassa sulle ricchezze e l’abbandono di spese assurde come gli F-35 e la Tav per rispondere all’insopprimibile necessità di reperire nuove risorse. Le differenze di genere valorizzate sul serio. Per di più, se non si pone seccamente l’obiettivo urgente di rinegoziare gli accordi europei, a partire da quella vera assurdità che è il fiscal compact, parlare di sviluppo rischia di essere vuota retorica. Come va rivista la norma sull’equilibrio di bilancio messa nella Costituzione. Non se ne parla neppure nella mozione più vicina, quella di Gianni Cuperlo.

Un Pd che voglia partecipare ai flussi progressivi che gli scorrono accanto non snobba la mobilitazione in difesa della Carta, o la “Costituente dei beni comuni”. Propone l’unificazione con Sel e i tanti soggetti sciolti e vaganti, in tempi ravvicinati. Si confronta con il movimento 5Stelle, attaccando le posizioni xenofobe espresse da Grillo, ma cogliendo i rumori di un fiume carsico. Come sarebbe cambiato tutto, a proposito, se si fosse trovata a suo tempo un’intesa attorno a Stefano Rodotà.

Il congresso può essere l’occasione per chiarire definitivamente (e poi basta, però) tutto ciò. E’ di grande interesse il documento redatto da Fabrizio Barca, un autorevole riferimento su punti cruciali come la visione di un partito culturalmente autonomo dalle altre sfere e la circolazione della conoscenza, vale a dire la rianimazione dei circoli territoriali. Materiali per un’altra cultura politica.

Torna di attualità Adriano Olivetti, ma non ci si chiede come mai quella via fu preclusa da culture arretrate e compromissorie, mai dome e così attuali: Alitalia, Telecom… . E la crisi, pur globale, è largamente surdeterminata da un cinico e orribile capitalismo antiweberiano: ignorante, voyeuristico, speculativo e finanziario; da una globalizzazione che ha nella tragedia di Dacca o negli sbarchi di Lampedusa le sue istantanee più realistiche e più disumane, secondo le parole di Papa Francesco.

Serve un nuovo realismo, come predica una importante corrente filosofica, e come vuole lo storia che corre. Serve un partito-network di parte, che rimobiliti le intelligenze collettive e connettive. La rottamazione, perché non si riduca ad un brand pubblicitario, è soprattutto battaglia delle idee, contrasto delle linee liberiste e della subalternità alle sirene postume del “blairismo”, pur a fronte dei disastri conclamati come la guerra e la distruzione dello stato sociale. Qui dentro, non nella cooptazione generazionale oligarchica, si formano i nuovi dirigenti. Riuscirà ad essere questo il congresso, e non solo un pallottoliere delle tessere? Ad essere ricerca e confronto duri ma unitari, nel senso di una comunità?

Tuttavia, ogni ricognizione parte da un dato soggettivo. «Il giudizio deve essere storico, che è l’opposto di giustificatorio» sottolineava Franco Fortini in un bell’articolo su il manifesto del 1981 («Per una congiura in piena luce»), dove scriveva che «In politica la confessione delle colpe non implica mai un perdono….E nessun ceto politico scompare senza che ci sia chi lo sostituisce». Che sia allora l’ultimo congresso, di questo partito.