Ci sono davvero diverse ragioni per dedicare qualche ora di intensa lettura al saggio di Giorgio Cremaschi, una vita spesa nella Fiom fino al pensionamento e ora incessante martello della linea «minoritaria» Il sindacato è un’altra cosa – opposizione Cgil. La sua agile pubblicazione, data alle stampe da Jaca Book, centra il merito di prendere il toro per le corna in un momento in cui fare sindacato, tra divisioni e manifestazioni nazionali, sembra essere un paradigma che inevitabilmente debba scontrarsi con il moloch della Cgil.

Le pagine di Lavoratori come farfalle (pp. 119, 12 euro) riprendono la storia del sindacato, da Trentin alla lotta per la scala mobile, dal «salario come variabile indipendente» alla svolta dell’Eur nel 1977 fino ad arrivare all’oggi, dove il racconto di memoria si fa accusa e l’indice viene puntato sulla deriva delle compatibilità e delle concertazioni. Nei giorni in cui la Cgil scende in piazza, dividendosi sul significato di una manifestazione contro Renzi o meno, il testo di Cremaschi appare quanto mai azzeccato.

Lo sguardo è rivolto ai tempi presenti, al dibattito sul Jobs Act, sulla riforma del mondo del lavoro e all’attacco frontale all’articolo 18. A chi ancora crede che le garanzie dell’art. 18 siano riservate a pochi e fortunati privilegiati dipendenti a tempo indeterminato, oggi si deve rispondere con un discorso complessivo che metta in guardia da un generale collasso del sistema di garanzie che può derivare dallo scomparso del simbolo delle lotte e delle conquiste operaie.
Cremaschi evidenzia che sbarazzandosi liberamente dei lavoratori, senza la famigerata giusta causa, i padroni sono autorizzati a fare a meno di chi guadagna più di una «riserva precaria», di chi gode del diritto di malattia – insomma, hanno il potere di sgretolare la rimanenza del diritto per chi ancora lo possiede ed evitare che in futuro questa possa interessare il mondo precario di oggi.

«Questo provvedimento aggiunge ferocia a ferocia, non cambierà nulla nelle dimensioni della disoccupazione», avverte nelle conclusioni l’autore, «non risolverà uno solo dei problemi produttivi delle imprese, soprattutto di quelle più piccole che non hanno mai avuto l’articolo 18, ma che sono in crisi più delle grandi. Non posso credere che gli alfieri del Jobs Act queste cose non le sappiano (…) Credo invece che siano in completa malafede, perché una legge per la flessibilità totale del lavoro oggi significa davvero solo una cosa: che il governo Renzi, come i cattivi di Hollywood, vuole solo stravincere con il lavoro e con i sindacati».

Il punto, la battaglia insomma, è proprio questa. Capire che i sindacati come li abbiamo storicamente intesi oggi faticano ad essere un riferimento di classe ma che, al contempo, svolgono una funzione che la contingenza dell’oggi ancora non permette si esaurisca. E non è attraverso gli accordi alla meno peggio con il potente di turno che si potrà guadagnare nuovamente il rispetto della controparte e dei lavoratori.