Nel giro di tre giorni palazzo Chigi ha fatto cenno due volte a possibili elezioni anticipate. Le ha minacciate Matteo Renzi in direzione, lunedì scorso, qualora la sua riforma fosse bocciata dal referendum. Ha poi fatto filtrare il medesimo scenario mercoledì, stavolta informalmente, a proposito di una possibile crisi di governo provocata dallo smottamento dell’Ncd. C’è poi un terzo segnale omogeneo. Rimangiandosi quanto affermato in precedenza, il premier ha affidato a un giornalista un messaggio preciso: se sconfitto al referendum resterebbe segretario del Pd. E’ anche questo un modo di parlare di elezioni: se Renzi sarà costretto dal voto ad abbandonare palazzo Chigi, anche la sua permanenza al Nazareno avrà i giorni contati. Annunciare che non sarà lui a passare la mano serve solo a far sapere che avrà comunque la possibilità di imporre il voto anticipato prima di essere detronizzato.

Quella del voto anticipato è sempre una minaccia estrema. In questo caso lo è molto più del solito. Votare prima del referendum oppure in caso di bocciatura della riforma comporterebbe la certezza matematica di un Parlamento ingovernabile, con effetti conseguenti sul già precarissimo stato dell’economia e dei conti pubblici. La minaccia di Renzi, sia detto per inciso, è una prova di irresponsabilità che nemmeno Nerone.

Quella minaccia, però, è una prova di debolezza, non di forza. Renzi sente il terreno franargli sotto i piedi e inizia a temere, probabilmente a ragion veduta, che quello che è stato sin qui uno dei suoi punti di forza si stia rovesciando nel contrario. Il potere europeo lo ha sin qui sostenuto, individuandolo come diga contro il “populismo”, anche a costo di concedere molto più di quanto non gradisse fare in termini di flessibilità. Ma ora la diga mostra crepe sempre più larghe, e c’è il caso che frani su quelli che avrebbe dovuto proteggere, facendo ancora più danno dell’onda di piena populista. Il pericolo che proprio chi lo ha difesa sino a ieri, più o meno obtorto collo, si accinga ora a preparargli lo stesso piattino servito a suo tempo a Silvio Berlusconi, stavolta usando la crisi delle banche invece dello spread, Renzi è il primo ad avvertirlo. Per questo mette le mani avanti notificando che non esiterà a far crollare tutto se sarà sconfitto. Il ragazzo è fatto così. Un uomo di Stato.

Il ricatto comporta però un margine di azzardo altissimo. I ribelli di Ncd non apriranno la crisi in estate, e non lo avrebbero fatto comunque, anche senza lo spettro delle urne. Si limiteranno probabilmente a lanciare un segnale inequivocabile nel voto della settimana prossima sul bilancio degli enti locali, dove è necessaria la maggioranza assoluta. Dopo aver così ulteriormente fiaccato un governo già allo stremo inizieranno a preparare la rete di salvataggio per l’autunno, giocando di sponda con un Berlusconi che non ha nessun interesse nel correre al voto e che, al contrario, sarà più che pronto a offrire i suoi voti per un responsabile “governo di scopo”, eventualmente a guida Franceschini.
Per giocare la partita a modo suo, après moi le déluge, Renzi avrebbe bisogno della totale complicità di Mattarella, e nonostante il presidente abbia tenuto sinora un profilo molto basso, è molto difficile che la ottenga. Al contrario, il Quirinale punterà su un “governo di scopo” in grado di evitare che dalle prossime elezioni politiche esca un quadro foriero di catastrofe.

Però Mattarella non è Napolitano e dunque difficilmente si muoverà con la stessa determinazione e noncuranza per i propri limiti istituzionali a cui ci aveva abituato re Giorgio. E Renzi non è Bersani: con la sua pelle di mezzo punterà i piedi come il suo predecessore non era capace di fare. Quindi alla fine la partita si giocherà tutta all’interno del Pd, e cosa faranno i parlamentari democratici è la vera incognita in questo disegno.

Renzi parte dal presupposto che, essendo lui il segretario e avendo in pugno una direzione che tanto varrebbe non convocarla per niente dal momento che deve solo applaudire le sue decisioni, l’ultima parola sulla prosecuzione o meno della legislatura spetterà solo a lui. Ma con la sopravvivenza stessa del Pd in gioco, c’è il caso che i fatti gli diano ancora una volta torto.