L’aquila imponente plana maestosa nei cieli somali e noi con essa. Statuaria e dinamica, ricorda il volo minaccioso del rapace di The Wall di Alan Parker sulla sonorità di Goodbye blue sky dei Pink Floyd. Lì una colomba dal vero si trasforma in aquila animata e poi in cacciabombardiere in azione. Qui, senza musica, è un pirata dei giorni nostri nel Corno d’Africa a tramutarsi minacciosamente in uccello d’assalto all’arrembaggio di una nave mercantile. Simile valenza metaforica, ma Last Hijack è un film documentario che, in quanto tale, propone una testimonianza di realtà basata su fonti autentiche. Con questo documentario parzialmente animato anche il Festival dei Popoli, casa nobile del documentario in Italia, decide di mettere in primo piano il genere ibrido tanto da programmarlo come film d’apertura. Già l’ha fatto Berlino, aprendoci con successo la sezione di documentari con la sua proiezione in prima mondiale. E Firenze così fa un ulteriore passo avanti –due anni fa con lo splendidamente efficace Crulic di Anca Damien aveva dischiuso le sue porte al documentario animato- nell’abbattimento del muro fra le riprese dal vero e le immagini animate.

Last Hijack (L’ultimo arrembaggio) di Tommy Pallotta e Femke Wolting (Paesi Bassi/Irlanda/Germania/Belgio, 2014, 83′) ci porte oltre le apparenze mediatiche che suggeriscono inquietanti cuori tenebrosi, insidiosi della globalizzante civiltà occidentale mercantile e quindi terroristici, lontane ormai da suggestioni romantiche di avventure piratesche altrettanto mistificanti. Ci conduce invece nella dimensione umana reale di un gruppo di pirati somali e del loro leader, Mohamed.

Vediamo la pirateria odierna dal loro punto di vista, in particolare da quello del protagonista Mohamed. Tramite il suo racconto ripercorriamo con lui il percorso di vita che lo ha portato a vivere questo tipo di vita, a percepire come situazione normale al di là del bene e del male fuori dalle leggi internazionali, ma subordinata a quella dell’esistenza materiale, dalla condizione di sopravvivenza a quella di lucrosa attività. Da anni questi uomini, equipaggiati con imbarcazioni leggere e armi sgangherate, mettono a rischio la propria e l’altrui vita prendendo d’assalto le petroliere che si trovano a solcare le acque che bagnano il Corno d’Africa.

Lo sguardo dei registi non è né connivente né moraleggiante, ma semplicemente curioso e indagatore. Lo spettatore così capisce meglio cosa ha portato il fuorilegge somalo ad imboccare una vita pericolosa, anche brutale, ad abbondare i suoi sogni infantili per la pirateria e con questa realizzarne altri più materiali. Ricordi e paure, desideri e progetti si esprimono nei momenti in cui il pirata posa le armi e si concede i suoi spazi di vita normale, sia familiare che sociale. I bambini che giocano nell’aia, le battute scambiate fra amici, i preparativi per il suo prossimo matrimonio fanno parte di una quotidianità che non a tutti è concessa, sicuramente non da quelle parti, anche se a noi possono sembrare scontate, forse banali. La contraddizione non è solo nella dimensione esistenziale di questi pirati, ma anche nella percezione di chi li osserva e circonda.

Nel proprio paese infatti godono di una fama controversa: temuti e rispettati, sono senza legge e senza scrupoli, ma il denaro accumulato e l’alone di pericolo che circonda le loro gesta conferisce loro un carisma contrastato. Oggi la vita di Mohamed sembra essere giunta ad un bivio: se da una parte i genitori e l’imminente matrimonio lo spingono ad abbracciare una vita tranquilla, dall’altra sembra che la “febbre dell’arrembaggio” continui a bruciargli sotto la pelle.

La Somalia è un centro nevralgico della pirateria odierna, un problema per la sicurezza dei commerci internazionali, e tramite le storie di Mohamed e degli altri uomini entriamo concretamente nel nucleo della questione. Un misto di autolegittimazione e di disagio per una situazione comunque sempre più stigmatizzata come irregolare nell’opinione mondiale, ma anche –ed è forse quello che più incide- in quella locale e famigliare.

Gli uomini, Mohamed in particolare, si mostrano disponibili a farsi riprendere per quello che sono, fanno ed hanno. Li vediamo nella loro dimensione umana, lati oscuri e solari insieme, impegnati nell’arte dell’arrangiarsi, nel modo che conoscono e che è il loro lavoro. Mohamed lascia intravedere anche i dubbi che gli sorgono sul suo stile di vita, le pressioni da parte di chi gli sta vicino, l’idea che si sta consolidando in lui che potrebbe anche smettere. Magari dopo un definitivo ultimo arrembaggio per chiudere in bellezza per un ultimo buscadero su una spiaggia deserta di un mondo forse destinato a scomparire.

Poteva bastare far semplicemente parlare le loro voci, i loro visi, i loro corpi, i paesaggi intorno senza l’integrazione di immagini artificiose evidentemente manipolate? “Non volevamo fare un documentario d’osservazione -dichiarano i registi Tommy Pallotta e Femke Wolting- perché sapevamo che non avremmo mai potuto essere presenti durante gli arrembaggi. Quando abbiamo pensato di unire animazione e riprese documentarie si sono aperte tantissime possibilità”. Ecco ribadite dai due filmmaker qualcuna delle motivazioni consolidate per il ricorso all’animazione nei documentari: mostrare ciò che si conosce ma che non si può filmare, intensificare un punto di vista emozionale, aumentare la valenza stilistica ed estetica dell’immagine. Così le scene d’azione, pur basate sulle testimonianze dei protagonisti, sono raccontate con spettacolari sequenze d’animazione disegnate da Hisko Hulsing. Interessante è anche comprendere le scelte fatte nel decidere cosa e quando animare o invece utilizzare il girato documentaristico. Raccontano i registi: “abbiamo fatto una distinzione fra il girato documentaristico che riprendeva la vita attuale di Mohamed, che cercava di combinare l’essere un pirata con il mettere su famiglia, e le sequenze animate. L’obiettivo dell’animazione era di entrare nella testa del nostro personaggio principale e di mostrarne la realtà soggettiva. Noi sapevamo che la guerra civile avevo avuto un grande impatto sulla sua vita. Con l’animazione potevamo tornare in flashback sugli eventi che lo avevano formato, quale il giorno in cui è iniziata la guerra. Potevamo inoltre mostrare i suoi sogni e ricordi: dai suoi primi arrembaggi fino a dare forma alle sue paure riguardo al matrimonio”.

I due registi non sono alle loro prime esperienze di cinematografia creativa, in particolare Pallotta ha prodotto i film rielaborati artificialmente di Richard Linklater, Waking life e A scanner darkly. Wolting è cofondatrice della casa di produzione olandese Submarine che, fra gli altri, ha al suo attivo l’originale serie documentaristica animata Naked che presenta storie e testimonianze di adolescenti su argomenti difficili e delicati che li riguardano. La regista di documentari ha anche prodotto il lungometraggio Rembrandt’s j’accuse di Peter Greenaway, di cui sta producendo anche il prossimo Eisenstein in Guanajuato, girato in Messico sul primo amore del grande regista russo. Incontrandosi e lavorando insieme, Pallotta e Wolting hanno combinato approcci simili e complementari di ibridazione cinematografica. “Ci interessano le forme ibride perché offrono molte più possibilità in termini di narrazione –spiegano Pallotta e Wolting- mentre nella non-fiction rappresentano una sfida all’idea di realtà oggettiva che un documentario dovrebbe catturare. Perciò Last hijack è un ibrido che incorpora riprese dal vero (live action) e animazione, ma anche lungometraggio narrativo e documentario. Da più un secolo si fanno film e documentari, e ci sono ancora tutte queste convenzioni di generi e di modi specifici di raccontare una storia. Siamo eccitati da queste nuove forme ibride perché puoi sperimentare e cercare nuove forme di narrazione che non abbiano ancora regole. Sempre più film combinano riprese dal vero, effetti speciali e animazione per creare nuovi mondi, e ora è possibile anche nei documentari”.