C’è, nella lingua inglese, una vecchia battuta, che fa più o meno così: «Come si chiama una persona che ama frequentare i musicisti? Un batterista?». Nel corso degli ultimi trenta, quarant’anni, alcuni celebri esponenti del rock britannico e nordamericano effettuano il passaggio epocale dalle pelli alle corde (e al microfono) per ragioni disparate, che vanno dalla necessità di evitare le sgobbate del drumming al desiderio di alzarsi in piedi durante lo spettacolo. In effetti, da un lato alcuni tra i maggiori chitarristi (e cantanti) del mondo, iniziano da giovanissimi dietro un kit di tamburi, bacchette, piatti, charleston, grancasse; dall’altro gli ex batteristi che non riescono a diventare guitar hero o rock vocalist, almeno mantengono un buon senso del ritmo. In realtà il discorso risulta assai più complesso e ha a che fare con il polistrumentismo che caratterizza buona parte delle nuove musiche novencetesche sorte in particolare nel Nuovo Mondo e da lì esportate a ogni angolo del Pianeta.

All’inizio c’è come sempre il jazz che inventa un unico nuovo strumento, essendo gli altri presi in prestito dalle bande militari, dalla tradizione classica o dai retaggi etno-folklorici: il nuovo strumento è appunto la batteria formata da pezzi inerenti le orchestrine popolari, ma assemblati in modo tale da costituire un unicum sonoro e fisico. La batteria all’inizio non richiede conoscenze tecniche o virtuosismi particolari, ragion per cui i primi a cimentarsi tra combo e big band nell’hot jazz e nello swing, nel rhythm’n’blues e nel rock’n’roll sono ragazzi dotati soprattutto di senso ritmico, buon orecchio, muscolatura possente per coordinare lo sforzo fisico del «pesta duro» all’esigenza di «tenere il passo», talvolta addirittura in anticipo su tempi e cadenze dei brani, a loro volta eseguiti dando largo spazio alle parti improvvisate o comunque senza partiture (inesistenti a livello di pentagramma, ma da circa mezzo secolo aggiunte, per la batteria, con precipue notazioni).

Purtroppo si consolida – prima nel jazz, poi nel rock – avvalorata spesso da una critica snob e da una musicologia salottiera, l’idea che il batterista non sappia veramente suonare e che il suo rimanga un apporto meramente ginnico o spettacolare. Ma la storia insegna il contrario: esistono da sempre batteristi «illuminati» che da un lato pretendono una propria leadership in seno a piccole o grosse formazioni e che, dall’altro, lavorano sullo strumento fino a restituirgli pari dignità rispetto ad esempio a quelli a fiato o a corde, predominanti rispettivamente nel jazz e nel rock (e che vengono soprattutto impiegati in maniera solistica).

La batteria inventa, altresì, per i suonatori l’idea del polistrumentismo che viene tradotta soprattutto nel free jazz e nel prog rock degli anni Sessanta, quando non è raro osservare fra i dati dei booklet o ancor meglio ai concerti, i musicisti attorniati ad esempio da strumenti etnici: il batterista in tal senso passa tranquillamente fra congas, tabla, marimba, gong, campane, djembé, zucche, balafon, crepitacoli, sonagliere, vibrafoni, così come chi inforca una o più chitarre non è magari restio a pigiare i tasti di un Hammond o un Rhodes o a soffiare in un flauto o in un sax.

Frank Zappa

Colui che viene indicato come il rockman più colto nella storia della musica e che il mensile Rolling Stone inserisce al ventiduesimo posto tra i migliori cento chitarristi di ogni tempo, in realtà inizia con la batteria. All’età di dodici anni Zappa possiede già un tamburo, che usa in camera da letto (diventata di fatto il suo laboratorio), percuotendolo così forte da togliergli la vernice dopo poche settimane; passa quindi a un singolo rullante, e dopo un paio di anni, si impegna fino a ottenere il set completo. Al liceo, Frank suona dunque la batteria per una r’n’b band chiamata The Ramblers. Egli stesso ricordando poi l’approccio allo strumento, ammette: «Il principale svantaggio è che non ho mai avuto una buona coordinazione tra mani e piedi; ho potuto eseguire un sacco di roba su rullante e tom-tom, sui piatti e affini, ma non sono mai riuscito a mantenere un vero ritmo costante sulla grancassa». Licenziato dai Ramblers, ricomincia con un altro gruppo denominato The Blackouts e poi, ispirato da bluesmen come Johnny «Guitar» Watson e Clarence Gatemouth Brown, abbozza a suonare la chitarra del padre, di cui riascolta altresì la collezione di black music a 78 giri. «Ho imparato – ricorda ancora – a suonare gli accordi solo dopo un anno circa, ma in quattro settimane stavo già esibendomi con gruppi adolescenziali merdosi».

Dave Grohl

Dopo il suicidio di Kurt Cobain nel 1994, il trio Nirvana è di fatto sciolto e il batterista Dave Grohl ricomincia con i Foo Fighters, suonando inizialmente tutti gli strumenti. Una volta che i Foos si trasformano in una band vera e propria, Grohl diventa, stando alle sue stesse parole, «un fottuto batterista che sta cercando di alzarsi in piedi, andare davanti e suonare la chitarra». Grohl insomma si fa conoscere quale solido cantante e buon chitarrista, benché rimanga uno dei maestri della batteria per la sua generazione. E tutto ciò comporta effetti collaterali insoliti, come l’essere fortemente richiesto in altrui session per uno strumento che ormai non è più solito praticare nella sua band. Quando Dave registra di nuovo le parti ritmiche per il secondo album The Colour and the Shape, William Goldsmith, batterista titolare dei Foo Fighters, si offende a morte e abbandona subito il quartetto. Come un adolescente, Grohl viene definito un adulto che se si applica con diligenza alla chitarra, alla fine, potrebbe padroneggiare il celebre assolo dei Lynyrd Skynyrd in Free Bird. Invece, come un adulto che suona la chitarra da una vita, ricorda: «Sapevo che era sbagliato, sapevo che, anche se ho praticato lo strumento per anni, non sarei mai stato in grado di svolgere quella parte di chitarra. E infatti ancora non riesco a suonarlo, quell’assolo!»

Chris Cornell

La fondazione dei Soundgarden avviene nel 1984, quando Chris Cornell e Hiro Yamamoto condividono un minuscolo appartamento. È lo stesso Cornell a svelare l’arcano: «Io ero batterista e lui bassista, quindi era scritto che avremmo formato una band». Cornell diventerà il cantante del celebre quartetto grunge, e presto dovrà posare le bacchette e passare davanti al «drum kit» anziché sedervisi dietro, e concentrarsi esclusivamente sulla propria straordinaria voce. Sul palco Cornell diventa il frontman per eccellenza del rock alternativo degli anni Novanta (e oltre). E arriverà a completare il sound dei Soundgarden con la chitarra ritmica, pur non avendola mai suonata prima.

Keith Strickland

Quando il cofondatore dei B-52’s, Ricky Wilson, nel 1985 muore di cancro (conseguenza dell’Aids) la band opta per restare unita e continuare, pur rendendosi conto di aver bisogno di un sostituto alla chitarra. Invece di ingaggiare qualcuno, il batterista Keith Strickland decide di occupare il posto del suo migliore amico. «Ho voluto – dice Keith a Rolling Stone – mantenere qualche legame con ciò che Ricky aveva fatto», aggiungendo che l’apporto del caro estinto nei primi tre dischi e ai concerti «era fondamentale nel nostro sound, ma io non volevo che la nostra musica scomparisse. Sapevo che una volta che avessimo ricominciato a suonare dal vivo, non ci sarebbe stato più il repertorio vecchio da interpretare, e se avessimo preso un nuovo musicista, avrei dovuto essere lì tutto il tempo a dargli consigli, informazioni, suggerimenti, dai ritmi agli accordi da usare e tutto il resto. Così ho pensato di farlo io: ne sapevo abbastanza di musica e ho creduto giusto espormi in prima persona. Beh, speravo di poterlo fare». Con Strickland a suonare la chitarra e a scrivere canzoni, i B-52’s ottengono il loro più grande successo con i singoli Love Shack e Roam da top five e il quadruplo disco di platino Cosmic Thing.

Skip Spence

Reclutato dai Jefferson Airplane grazie alla sua energia, Skip Spence è un fracassone che si entusiasma dietro una batteria. Il primissimo cantante degli Airplane Signe Toly Anderson rammenta: «Tutto quello che voleva fare era essere parte della band. Non sapeva suonare una batteria; ma ha suonato con tutto il suo animo. Se si ascoltano i dischi che ha registrato, si può sentire quanto abbia lavorato sodo». Spence è infatti presente in Jefferson Airplane Takes Off (1966), l’album d’esordio del sestetto di San Francisco, in cui scrive anche un paio di canzoni; ma se ne va quasi subito per fondare i Moby Grape, capostipiti del folk-rock psichedelico. Anche se, per gli osservatori superficiali, può apparire strano il passaggio di Spence dai tamburi alla chitarra, in realtà si tratta solo di un ritorno allo strumento preferito.

J Mascis

Al liceo, J Mascis – ottantaseiesima posizione tra i cento grandi chitarristi di Rolling Stone – diventa il batterista del trio Deep Wound, il gruppo hardcore più veloce in tutta Amherst, nel Massachusetts. Poi, nel 1984, forma un’altra band, i Dinosaur (il «Jr.» verrà dopo), con Lou Barlow al basso e Murph alla batteria: Mascis si converte alla chitarra, pensando di poter insegnare a Murph come si suonano le percussioni. Ma nessuno si aspetta, però, che Joseph Donald (però si firma con la sola J) si riveli di lì a poco uno dei più idolatrati eroi della chitarra alt rock. A volte, però, Mascis tornerà fra piatti, rullanti e grancassa: su Green Mind (1991) terzo capolavoro dei Dinosaur Jr., per esempio, è lui a tamburellare su sette dei dieci brani, così come è ancora lui a tenere il tempo per la metal band bostoniana Upsidedown Cross.

Patrick Wilson

Gli Weezer debuttano nel 1992, e per un paio di decenni sarà Patrick Wilson a occuparsi del drumming. Il musicista imbraccerà la chitarra poi per il progetto parallelo The Special Goodness, e così farà anche nel tour del 2009 dei Weezer, in cui si esibisce con una Fender Stratocaster verde smeraldo. I motivi sono almeno due, da un lato il frontman Rivers Cuomo vuole la libertà di muoversi sul palco e dall’altro Wilson non ce la fa più a reggere la fatica dal vivo (mentre sugli album degli Weezer continuerà a farlo). «A un certo punto – sostiene Patrick – Rivers mi ha lasciato la responsabilità di chitarrista. Ottimo, perché suonare la chitarra non fa male alle mie spalle».

Don Henley

Dopo anni di drumming (in session per Linda Ronstadt, con gli Eagles o persino dai Guns N’ Roses), Henley ha ormai appeso al chiodo le sue bacchette: durante i concerti ormai trascorre la maggior parte del tempo davanti a un microfono, spesso con una chitarra a tracolla. Confessa: «Suonare la batteria fa male alla schiena». E aggiunge: «Per suonarla ho dovuto tenere il mio corpo in una posizione tale che la mia spina dorsale è diventata storta. Negli anni Settanta c’è stato un momento in cui letteralmente non riuscivo a dormire. Avevo così tanto dolore prima di addormentarmi, che ho dovuto portarmi in giro un materasso speciale ogni volta che gli Eagles andavano in tour; solo così potevo riuscire a chiudere occhio. La spalla sinistra mi si è abbassata di un centimetro o due rispetto all’altra e ho dovuto fare un sacco di yoga e di esercizi per raddrizzarmi». Don è ora felice di suonare la chitarra (anche acustica) e concentrarsi sul canto e sulla scrittura. E difatti di sé e di tale attività dice: «È divertente sedersi e guardare un altro che suona la batteria».

Ringo Starr

Con un gioco di parole si potrebbe affermare che sia lui la prima vera «star» fra i batteristi rock: la mascotte dei Beatles – in quanto ultimo arrivato, dovendo «misteriosamente» sostituire il «veterano» Pete Best, poco prima di registrare le canzoni che renderanno celebri i quattro liverpooliani – appare con una chitarra in mano nel booklet dell’album Let It Be, ma, oltre la ritmica, Lennon e McCartney gli affidano solo qualche parte vocale solista (Yellow Submarine, With a Little Help From My Friends, Octopus’s Garden, Don’t Pass Me By, What Goes On e Flying) e ancor meno la scrittura delle canzoni. La situazione si ribalta, dopo il 1970, quando i Fab Four decidono di separarsi e il «piccolo» Richard Starkey si mette addirittura a fare il crooner o l’interprete country’n’western, per ripiegare quindi su un facile pop sempre nelle vesti di cantante (e talvolta di compositore). Molto richiesto come turnista da gruppi importanti – alla faccia dei critici che lo ritengono modesto alla batteria -, quando però decide di tornare al rock formando la sua All-Starr Band è ancora il frontman canterino che dal vivo percuote i tamburi soltanto per i bis di cover beatlesiane.

Phil Collins

Entra a far parte dei Genesis dopo che i membri fondatori della band prog inglese, Tony Banks e Mike Rutherford, al terzo album stanno quasi licenziando un quarto batterista. Con Peter Gabriel, cantante, autore e frontman, la vita non è facile in quanto Phil ha sia una bella voce sia la penna facile: ma è proprio Gabriel a lasciare i Genesis e così Phil può diventare l’interprete solista a partire dal lavoro del 1976, A Trick of the Tail sino al dodicesimo album, Calling All Stations (1997), e poi ancora per il Live over Europe (2007) della reunion. Dal vivo è sostituito ai tamburi dai rinomati Bill Bruford e Chester Thompson, mentre in studio è ancora lui a tenere il ritmo. Anche nella carriera individuale, in cui riprende gli amori giovanili targati soul e r’n’b Collins si conferma frontman navigato con un vocalismo e uno stile ancor più di stampo black, come mostra nel recente Going Back (2010) tutto di cover Sixties, che non a caso resta il suo album preferito assieme a Both Sides (1993) dove fa tutto da sé, suonando ogni strumento.