Per Amal Fathy la fine dell’anno si era chiusa con un’altra condanna. O meglio una conferma: il 30 dicembre la Corte d’Appello del Cairo aveva confermato la pena a due anni di prigione per insulti e pubblicazione di false notizie. La sua colpa: un video di denuncia di molestie sessuali da lei subite in una banca.

Una notizia che ha rigettato nell’angoscia la sua famiglia, il marito Mohammed Lofty e il figlioletto, e quella di Giulio Regeni di cui Lofty è consulente legale. Ieri è stato lui, fondatore e volto di una delle più note ong del paese nordafricano, la Ecrf, a tentare l’ultima carta.

Si è rivolto direttamente al vertice della piramide, al presidente al-Sisi e ha chiesto la grazia per la moglie, agli arresti domiciliari dal 29 dicembre dopo oltre sette mesi di carcere e in attesa dell’ultimo grado di giudizio sul caso in questione (non è il solo: su di lei pesa anche l’accusa di appartenenza a gruppo terroristico, il Movimento 6 Aprile, noto oppositore di Mubarak prima e di al-Sisi dopo). «Chiediamo al presidente della Repubblica la grazia – ha detto Lofty in un’intervista all’Afp – Non è giusto che una donna vittima di molestie sia imprigionata. Le sue condizioni sono peggiorate in carcere».

Dietro le sbarre, la salute psicofisica di Amal è gravemente deteriorata, ha perso 20 chili. Una situazione che non potrà che aggravarsi con una nuova incarcerazione. Mohammed lo sa bene. Come sa bene che la crociata del regime contro la giovane attivista rientra nelle forme, ben poco occulte, di punizione nei suoi confronti: «È una pressione su di me, perché interrompa il mio lavoro sui diritti umani». Un lavoro capillare, nelle tante città dove l’Ecrf opera per monitorare abusi e violazioni e difendere le vittime.

Tra loro il ricercatore italiano Giulio Regeni: «Apprendiamo con sgomento la notizia della conferma della condanna a due anni ai danni di Amal Fathy – aveva scritto la famiglia Regeni subito dopo la sentenza – Non un giorno di detenzione in più sarebbe per lei sopportabile. Chiediamo al nostro governo e alle ambasciate dei paesi ’amici’ al Cairo di attivarsi immediatamente e intercedere con il presidente al-Sisi affinché conceda il perdono».

Uno dei paesi «amici», la Germania, ieri ha dato il via libera alla consegna alla marina del Cairo di una fregata della ThyssenKrupp, 500 milioni di euro. Aprendo alla contraddizione: non solo quello egiziano è un regime violatore seriale di diritti umani, ma è anche parte della coalizione a guida saudita contro lo Yemen. Eppure a Riyadh Berlino ha sospeso la vendita di armi.