Per tutta la settimana il traffico già problematico attorno a Hollywood è stato del tutto intasato. Per la prima di Star Wars sono stati requisiti cinque interi isolati di Hollywood Boulevard, un operazione monumentale anche per la norma locale. Il sequel di Guerre Stellari firmata da JJ Abrams si è abbattuta sulla città come un anticiclone in grado di generare la propria meteorologia, un uragano di marketing e merchandising e saturazione mediatica culminato nell’anteprima ufficiale di lunedì che più che una proiezione somigliava all’apertura della porta giubilare con autori, produttori, cast e Hollywood tutta riunita in adorazione del film-fenomeno da cui si aspetta la transustanziazione del botteghino in anno record. Sullo sterminato tappeto rosso in realtà tirava una tramontana dicembrina che ha messo a dura prova i decolté.

Per l’occasione la Disney, lo studio che ha rilevato la franchise di George Lucas affidandola ad Abrams e alla sua produttrice Kathleeen Kennedy, ha effettivamente superato se stessa: 500 metri del celebre boulevard sono stati ricoperti con un tendone sotto il quale gli invitati hanno sfilato davanti a manichini vestiti con i costumi si scena, repliche di alieni e di robot. Dal tunnel, lungo il doppio circa di quello degli Oscar, si accedeva direttamente ai 3 cinema storici di Hollywood: il Dolby degli Oscar, l’El Capitan di proprietà Disney e il Chinese dove nel 77 debuttò il primo Guerre Stellari. Davanti a quest’ultimo erano rimasti accampati a fare la fila per oltre una settimana i fan «ultras» della serie. A loro, lo zoccolo duro, è stata riservata la platea nella quale hanno preso posto con maschere e travestimenti d’ordinanza, gigantografie autografate e tutti i paramenti di una fede fervida e cieca che ha preso la forma di un prevedibile boato quando sul palco sono usciti i membri del cast presentati da Abrams. Il regista ha innanzitutto ringraziato George Lucas seduto nel palco d’onore assieme all’amico Steve Spielberg; l’inquadratura della diretta ha riprodotto l’immagine un po’ sbiadita appesa nel foyer del Chinese: una foto dei due scattata 35 anni prima sul set di Predatori dell’Arca Perduta.

E in effetti l’intera serata era scenograficamente protesa alla rievocazione storica. Abrams dopotutto è uno specialista del reboot. Sulla riattualizzazione «generazionale» del repertorio culturale hollywoodiano ha costruito una carriera in piena sintonia con un momento culturale improntato simultaneamente alla saturazione tecnologica e ad un immaginario plasmato dalla nostalgia. Dal 2006 la sua Bad Robot, ha rilevato il «franchise» di Mission Impossible che ha tradotto in blockbuster la serie televisiva cult degli anni 60. Nel 2009 Abrams ha preso in mano una altra pratica cult, Star Trek, riportando la serie alle origini con un azzeccato prequel di sapore retro, capace di rieditare e i personaggi originali e brevettando la formula che aggiorna le storie rispettando tuttavia e omaggiando il «codice base», quasi dei veri e propri «restauri» cinematografici. Il successo di Star Trek oscura anche le creazioni originali con cui aveva comunque innovato la fiction seriale televisiva – Lost, Alias, Fringe – e lo impone come curatore e tutore della mitopoiesi nerd. Nel 2010 il suo Super 8 è un capolavoro di filologia cinematica: un clone di un film di Spielberg, o meglio, con la benedizione del maestro, una sorta di opera spielberghiana perduta. Di quel film dichiara: «l’ho pensato meno come omaggio che come una rivisitazione di un momento che da bambino ho molto amato, e dei film che lo definirono, perché sostanzialmente mi sento ancora come il bambino geek che ero all’epoca».

Nella riattivazione di Guerre Stellari trova il suo trionfo, con una operazione squisitamente vintage, un film fra reboot e remake, un oggetto autoreferente che attinge e remixa un totem della cultura nerd– ed ha la stessa funzione riappropriativa di un negozio di vinile retro per ventenni. L’uomo che ora è depositario dei due principali filoni pop-fantascientifici di Hollywood, che nel suo ufficio ha appese lettere incorniciate di Gene Roddenberry (Star Trek) e Rod Serling (Twilight Zone – Ai Confini dell Realtà) aveva definito Super 8 emozionante per come gli aveva permesso di avvicinarsi al «dna narrativo» di Spielberg. Col Risveglio della Forza la sua ingegneria genetica dell’immaginario si inserisce perfettamente in quest’ anno che ha visto il ritorno di Rocky Balboa (in Creed) e di Mad Max. Anche questa volta il suo intervento consiste nella reinvenzione filologica del materiale che lo stesso Lucas aveva diluito con una deriva romantica e digitale negli ultimi tre film. Con l’aiuto di Lawrence Kasdan, sceneggiatore de L’Impero Colpisce Ancora e Ritorno del Jedi, Abrams riconduce la saga alle radici analogiche, scritturando l’originale cast per un passaggio di testimone che è soprattutto tributo al «source material».

Omaggio ma anche riedizione che contiene autentici repliche di scene clou: l’assalto aereo alla Death Star, la taverna degli alieni, il duello fra padre e figlio sospesi nel vuoto, un vecchio saggio incappucciato: è Max Von Sydow, ma anche versione di Alec Guinnes… Un film insomma in cui sequel e originale si sovrappongono. E se Quentin Tarantino ha tenuto a girare il suo Hateful 8 in originale panavision 70mm andando a scovare le lenti originali usate per Beh Hur e commissionando le musiche a Ennio Morricone, per il suo film Abrams ha chiamato John Williams e preferito creature rigorosamente analogiche agli effetti digitali per tenere fedele alla tecnologia circa 1976 del primo film.

Come riesce a dividersi fra gli immaginari di Star Trek e di Star Wars?

Malgrado l’assonanza Star Trek e Star Wars in realtà, tematicamente sono agli antipodi, diversi per tono a sensibilità e carattere dei personaggi. La prima è molto più «fantascienza», la seconda una fiaba fantasy. Le sovrapposizioni sono minime e comunque non ho problemi ad immergermi in entrambe.

Quale è stato l’approccio a Guerre Stellari?

L’obbiettivo era di procedere simultaneamente in due direzioni: raccontare una nuova storia ma anche tornare ad un luogo ed un feeling che tutti abbiamo provato quando vedemmo Star Wars per la prima volta. È stato emozionante riabbracciare una tecnologia «antica» che ci ha permesso di ritrovare a giusta autenticità. Anche perché anche le «vecchie» tecniche oggi hanno progredito come gli effetti digitali. Quindi le creature «animatroniche» che abbiamo usato dispongono ora di servomotori e sistemi di telecomando che li rendono più agevoli. Alla fine il CGI lo abbiamo usato soprattutto per cancellare dall’inquadratura fili, attrezzature e marionettisti.

Come avete deciso di riaprire la pratica dopo l’happy ending del «Ritorno dello Jedi»?

Una delle cose incredibili che ha fatto George Lucas è stato di dare un senso di illimitata possibilità alla sua galassia, un universo che contiene implicitamente una infinità di possibili storie oltre a quelle finora raccontate nei sei film. L’idea di fondo rimane la continuazione del conflitto fra bene e male che nella mitologia interna della serie va avanti da millenni. Il fatto di lavorare con Kathleen (Kennedy) e Larry Kasdan, l’uomo che ha creato Yoda e quelle mitiche frasi proferite da Han Solo, naturalmente è stato impagabile nello sviluppo di una nuova trama. Al di là di questo è stato soprattutto un gran divertimento inventarsi nuovi protagonisti come Rae e Finn e Poe e Kylo Ren e allo stesso tempo immaginare quello che è potuto accadere ai personaggi che ricordiamo ed al loro mondo.

Ora che il lavoro è finito cosa si augura?

Prima di iniziare le riprese ci siamo seduti e messo nero su bianco quello che volevamo che il pubblico provasse. Ora vorrei sinceramente poter andare in un cinema e vedere la gente che ride e urla e piange e applaude, che prova le emozioni che sono la ragione per cui abbiamo fatto il film. Se saremo stati capaci di stimolare quelle sensazioni è quello che conta in definitiva.

Un momento catartico..?

Credo che non ci sia forse nulla di più emozionante della esperienza comunitaria di andare al cinema, recarsi in una sala buia con centinaia di altre persone e ridere assieme e urlare allo stesso momento, applaudire o anche fischiare assieme. Ecco, l’esperienza di fare tutto questo assieme, soprattutto di questi tempi in cui siamo tutti isolati nei nostri piccoli schermi. È qualcosa di profondamente potente e allo stesso tempo semplicemente umano: il nostro desideri intrinseco per una comunità tangibile. Ed è questo quello che possono ancora dare i film.