Il rave come ultima controcultura: non una provocazione ma una verità, alla fine, logica. È questa la conclusione a cui si arriva leggendo «Rave New World», il bel libro di Tobia D’Onofrio (Repubblica XL, 15 euro). In circa trecento pagine, tra interviste e digressioni, attraverso una struttura in tre parti – questi i titoli: «Il gioco della mente», attraverso elementi teorici, precedenti storici, approfondimento sulla scena italiana; «Il corpo rivoluzionario», tra lettura socio-politica e situazione contemporanea; «Lo spirito immortale», tra antropologia applicata al mondo rave e considerazioni finali – l’autore riesce nel miracolo di scrivere un libro efficacemente divulgativo per coloro che non conoscono per nulla l’argomento (chi scrive qui è uno di questi), estendendo il discorso sul rave alla trama storica e sociologica di quei fatti e movimenti che hanno intersecato e trasformato l’esperienza, e allo stesso tempo produce un racconto tanto informativo nei dati quanto appassionante nel tono, qualcosa che in fondo solo un testimone interno alle vicende saprebbe dare – un testimone che, ovviamente, sia anche un buon narratore (e D’Onofrio lo è).
In sintesi, si tratta di un lavoro che vale sicuramente come introduzione al tema.
Andando invece più nello specifico nella lettura, si potrebbe focalizzare l’attenzione su come l’autore rende la materia trattata. Prendiamo allora tre passaggi rappresentativi.
Per il primo capitolo la scelta potrebbe senza dubbio cadere sul focus sull’Italia e in particolare alle pagine dedicate ai Mutoid Waste Company, «una tribù che ha incarnato l’essenza della cultura rave» dal momento che «le feste organizzate da questo collettivo anarcopunk hanno folgorato chiunque vi abbia partecipato e possono essere considerate l’archetipo del rave: set illegali allestiti in scenari urbani degradati, musica tribale di matrice prevalentemente elettronica, teatro di strada radicale in stile Living Theatre, body art, surreali mezzi di locomozione fantascientifici, costumi, sculture e scenografie d’ispirazione techno-punk, terrificanti mostri di rottami che si muovono sputando fuoco».
Insomma, un esempio che vale come sineddoche, per indicare un modo e mondo di indipendenza sociale.
Per il secondo capitolo il passaggio potrebbe invece essere quello sulle affinità culturali tra movimento rave e le prime insurrezioni no global, una situazione che D’Onofrio ricostruisce spostando l’attenzione sulla scena inglese degli anni Novanta, a partire dall’«esempio affascinante di quello strano fenomeno post-Thatcher chiamato Reclaim the Streets, le cui pratiche di street party sarebbero state imitate nel mondo durante i futuri Global Day of Action», e facendo «notare che nel primo strutturarsi del movimento il network britannico ebbe un ruolo cruciale.»
In questo caso, l’accento cadrebbe sulle radici politiche antagoniste nella cultura rave.
Infine, per il terzo capitolo, il riferimento può essere la parte dedicata alla lettura antropologica del «rito rave», attraverso le ricerche di studiosi come Georges Lapassade e Pietro Fumarola, analizzandone le possibilità performative inesauribili, cioè quelle liminali.
Indipendenza, antagonismo, liminalità: parafrasando una celebre formula, tre tratti che sembrano caratterizzare quanto letto in questo libro come, forse, trama di «storie temporaneamente autonome», cioè ancora possibili, aperte, per tutti.