«Di deleghe in bianco noi non ne daremo. Se vogliamo discutere di come riformare le regole del lavoro, noi ci siamo. Ma se la delega al governo deve essere un modo surrettizio di cancellare l’art.18, noi non ci saremo. Si può immaginare un contratto a tutele crescenti, ma per crescere le tutele devono esserci». Il deputato Alfredo D’Attorre, riformista già bersaniano fra i meno cordiali con Matteo Renzi (per dire: uno che sta attento a nominarlo sempre per cognome), prepara le barricate sull’emendamento all’art.4 della delega sul lavoro che ieri il governo ha presentato al senato sul contratto a tutele crescenti. Oggi il primo voto in commissione al senato e, c’è da scommetterci, le prime distinzioni interne al Pd.
Nella proposta in realtà non si fa riferimento alla modifica dell’art.18 dello statuto dei lavoratori, ma la delega avrà maglie così larghe che l’ex ministro berlusconiano Sacconi può serenamente gridare vittoria per l’abolizione prossima ventura dell’ultimo tabù dei diritti dei lavoratori. D’Attorre prova a negare: «Ma non mi pare che possa essere così: solo qualche giorno fa Renzi invocava il ’modello tedesco’, che non è certo quello del licenziamento facile. Capisco che con i ritmi renziani sette giorni sono un secolo, ma in fondo era solo una settimana fa».

Il compagno di corrente Stefano Fassina invece è molto più pessimista. Di buon mattino scrive su facebook: «Per onestà intellettuale, dobbiamo riconoscere che Sacconi ha ragione: l’emendamento proposto dal governo contiene tutte le ricette della destra, agognate per anni e arginate finanche durante il governo Monti, in condizioni politiche molto meno favorevoli di oggi». A sera incontra il ministro in un confronto tv su La7. Scontro duro, umore pessimo. La nuova «sintonia» fra Renzi e Berlusconi è solo la ciliegia sulla torta avvelenata. Parole pesanti sull’atto del governo del suo segretario: «Nessuna eliminazione delle forme contrattuali precarie; cancellazione del reintegro del lavoratore in caso di licenziamento ingiusto e ingiustificato; demansionamento; eliminazione dei vincoli per i controlli a distanza sulle persone che lavorano e nessuna risorsa aggiuntiva per universalizzare l’indennità di disoccupazione. In più, deleghe in bianco per riscrivere l’intera normativa sul lavoro. Tutto finalizzato a un ulteriore indebolimento della capacità negoziale dei lavoratori e lavoratrici per ridurre le retribuzioni e insistere su un’impossibile competizione di costo». Ergo: «È una linea opposta a quella sulla quale i parlamentari del Pd sono stati eletti e è anche opposta al programma congressuale e di governo di Renzi. È una linea inaccettabile». Conclusione: «Noi andiamo fino in fondo, stavolta. Ma non dipende solo da noi, dipende da quello che succede fuori». ’Fuori’ significa fuori dal palazzo. O, meglio, nelle stanze di Corso d’Italia dove ieri era riunito il direttivo della Cgil.

Certo dai tre milioni del Circo Massimo del 2002 sono passati dieci anni, ma sembra un secolo. Sergio Cofferati oggi, da eurodeputato, come allora, da segretario Cgil, si schiera contro i licenziamenti facili: «Un grave errore politico». Intanto la sinistra Pd è in stato di massima allerta. C’è chi non ci può credere, chi lo sa ma finge di non saperlo, chi esclude, chi paventa, chi avverte. In realtà tutti sanno che Renzi ha deciso di portare in Europa lo scalpo dell’art.18, che è come dire lo scalpo della (residua) sinistra italiana.

D’Attorre e Fassina hanno chiesto e ottenuto da Renzi una direzione tutta dedicata alla legge di stabilità e a quella sul lavoro. Sarà i primi di ottobre: si discuterà, si litigherà e alla fine si voterà. La sinistra interna verrà, come al solito, asfaltata in diretta streaming. E sarà costretta a adeguarsi alla decisione della (stragrande) maggioranza. Il premier-segretario non può chiedere di meglio. Se Fassina andrà «fino in fondo», anche Pippo Civati non ha dubbi su quello che farà: «Sono stato eletto per difendere i diritti dei lavoratori, non per toglierli, come peraltro è stato già fatto». L’area di Civati è l’unica a non essere stata cooptata nella nuova segreteria «unitaria», nella versione renziana, «plurale» in quella cuperliana, «lo staff di Renzi allargato a qualcuno che non lo ha votato al congresso» secondo D’Attorre.

Fatto sta che Civati in questi mesi è sottoposto al pressing di Sel. Il partito di Vendola prepara la piazza per il 4 ottobre a Roma: un appuntamento «contro il conformismo renziano, con chi ci sta, senza chiedere abiure o abbandoni di partito», spiega Massimiliano Smeriglio, capo dell’organizzazione vendoliana e numero due di Zingaretti alla regione Lazio. L’obiettivo, più o meno esplicito, è lanciare un’associazione «su cui costruire un profilo programmatico, una carta dei valori, una leadeship plurale», «una nuova avventura per costruire una cultura di governo alternativa, una sfida al Pd sull’innovazione». Insomma, una «cosa» a sinistra, un’altra, oltre la lista Tsipras, che in Europa va ma nel cortile di casa rischia di ritrovarsi divisa già alle prossime regionali della Calabria e dell’Emilia Romagna.

L’iniziativa di Sel, che anticipa di pochi giorni la manifestazione delle tute blu, potrebbe essere il calcio di avvio della partita dell’autunno. E raccogliere il malcontento – ammesso che ve ne sia – sulla definitiva cancellazione dell’art.18. E l’eventuale contraccolpo dentro la ’pancia’ del partito democratico. Non è un caso che a salire sul palco, con Nichi Vendola e Maurizio Landini, sono stati invitati anche Civati e Fassina.