Donald Trump sta continuando a fare appello ai legislatori e alla Corte Suprema per ribaltare i risultati delle elezioni, ma nonostante la maggioranza conservatrice, la Corte ha respinto il ricorso con cui si chiedeva di annullare la certificazione della Pennsylvania della vittoria di Joe Biden. La decisione è stata presa all’unanimità da tutti i 9 giudici, inclusi quelli nominati da Trump; fino ad ora The Donald, fra tribunali statali e federali, ha perso più di 40 volte.

Questo dato sembra non scalfire il partito, e gli alleati repubblicani continuano a sostenere le sue azioni: martedì i membri Gop del Congresso hanno respinto una risoluzione dove si affermava che Joe Biden è il presidente eletto. Alla domanda sul perché, il presidente della commissione per le regole del Senato, il repubblicano Roy Blunt, ha affermato di non voler “anticipare il processo elettorale e decidere chi dei 2 stiamo insediando”.

Il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, va anche oltre ed ha annunciato una causa presso la Corte Suprema per contestare i risultati delle elezioni presidenziali in Pennsylvania, Wisconsin, Georgia e Michigan, sostenendo che tutti e 4 gli stati hanno utilizzato la pandemia per modificare illegalmente le procedure di voto per espandere il voto per corrispondenza.

Il Texas chiede all’Alta Corte di dichiarare i risultati incostituzionali, e di ritardare la scadenza del 14 dicembre da parte del collegio elettorale per la certificazione degli elettori che sancisce la designazione di Biden come presidente.

Gli AG della Louisiana e dell’Alabama si sono subito esposti dando il proprio sostegno alla mossa di Paxton.

«Sembra che abbiamo un nuovo leader nella categoria ‘la causa più folle presentata per contestare in modo plausibile le elezioni’ – ha twittato Stephen Vladeck, professore di diritto presso l’Università del Texas – (Avviso spoiler: la Corte non accetterà mai questo caso)».

Stando ai giuristi non solo il Texas avrebbe aspettato troppo per fare causa, ma non avrebbe neanche alcuna voce in capitolo su come gli altri Stati scelgono di votare.

Intanto Joe Biden procede con la formazione della sua squadra, ed ha presentato formalmente il suo candidato a Segretario alla Difesa, Lloyd Austin. L’evento è arrivato dopo che alcuni democratici avevano espresso esitazione a concedere ad Austin il nulla osta per dirigere il Pentagono, dispensa necessaria in quanto Austin è in pensione da soli 4 anni, mentre per ricoprire il ruolo a cui lo ha nominato Biden è necessario aver smesso di lavorare da almeno 7 anni

Non c’è dubbio sulle credenziali militari di Austin: dopo aver iniziato la sua carriera nell’esercito nel 1975 come sottotenente, è diventato un generale a quattro stelle, e nel 2013 il capo del Comando centrale degli Stati Uniti, l’organizzazione militare che sovrintende le operazioni in Medio Oriente.

È stato in quel ruolo che aveva avuto notorietà come “un generale invisibile” che evitava le luci della ribalta, mentre guidava la lotta all’Isis.

Quando ha attirato l’attenzione è stato per le ragioni sbagliate: nel settembre 2015, Austin ha dichiarato al Comitato per i servizi armati del Senato che solo “4 o 5” dei 54 ribelli addestrati dagli Usa in Siria erano ancora sul campo a combattere il gruppo terroristico.

A quel punto erano già stati spesi 42 dei 500 milioni di dollari per il programma di formazione che doveva servire a rovesciare il governo di Damasco, senza dare alcun risultato positivo.

Inoltre, Austin è un dirigente del consiglio di Raytheon Technologies, un importante appaltatore della difesa degli Stati Uniti, posizione che sicuramente non piacerà ad alcuni progressisti preoccupati della indistinguibilità tra governo statunitense e fabbricanti d’armi.