“Sarà un concerto di una sola canzone e un viaggio senza frontiere”: Lula Pena mette subito le cose in chiaro alla Casa del Jazz. E naturalmente poi mantiene la parola. In realtà quello che la vocalist e chitarrista portoghese intende per “una sola canzone” è un flusso ininterrotto (senza pause, senza presentazioni) di tante canzoni, mentre il viaggio è davvero senza frontiere: solo per quel che riguarda gli idiomi utilizzati, alla fine se ne contano almeno sei (portoghese, inglese, francese, spagnolo, italiano e sardo). Lula Pena si conferma un’artista speciale, rabdomantica, magnetica, capace di creare tanto con poco, di comporre il suo fascinoso mandala in forma di concerto e di sedurre tutti senza ammiccamenti, senza concessioni. Semplicemente mostrando una tecnica sopraffina e molto originale alla chitarra, una fulgida verve compositiva e una voce, scura senza essere cupa, versatile al punto da impennarsi, di tanto in tanto, verso altezze che non ti aspetti.

IL SUO CHITARRISMO naturalmente ha un ruolo fondamentale in un concerto in solo come quello romano. E’ davvero una tecnica particolare quella che mette in mostra, frutto dell’alchimia di mondi stilistici diversi: il fadismo della guitarra portoguesa, il tocco percussivo del flamenco, il finger picking statunitense, perfino certe suggestioni metalliche del bouzuki da rebetiko…tutto finisce nella sua chitarra acustica e, spesso, sembra volerci finire dentro anche lei, quando si piega a cantare sul pickup che amplifica la sei corde e tira fuori da queste escursioni un timbro di voce più effettato, onomatopeico, low-fi…Il repertorio nel quale si disimpegna è per la gran parte ricavato dal tracciato di Archivo Pittoresco (che magnifica insegna…), il suo ultimo album, licenziato nel 2017 – oramai tre anni fa – a conferma di una cadenza certo non febbrile delle proprie uscite discografiche: tre album in vent’anni. Canzoni meravigliose come “Rose” (firmata da Ederaldo Gentil, compositore brasiliano scomparso qualche anno fa) con cui apre la sua esibizione e poi Poema, Ausencia, Ojos, si quereis vivir, O ouro e a madeira arrivano tutte da quel suo ultimo bouquet discografico. Così come la sua sorprendente versione, mossa come una coladeira capoverdiana, del classico sardo A diosa (no potho reposare)” composto nel 1921 da Giuseppe Rachel e Salvatore Sini e poi trasformatosi in una sorta di “inno alla nostalgia” nelle varie interpretazioni delle voci folk dell’isola.

C’E’ UN ALTRO REPERTO del nostro patrimonio musicale che Lula Pena ha voluto raccogliere e reinterpretare nel corso del set romano. Un brano che molti hanno in testa per le versioni di Alberto Rabagliati, Renato Salvadori e soprattutto Claudio Villa, ma che in realtà venne incisa per la prima volta nel 1943 dal baritono Gino Bechi. La strada nel bosco è davvero un pezzo che nel trattamento dell’artista portoghese si trasfigura, per diventare quello che in realtà era stato negli anni della seconda guerra mondiale e della resistenza: una metafora della catarsi, della sofferenza e del buio di un periodo drammatico. I cantori degli anni cinquanta e sessanta l’avevano invece declinata come un semplice trip sentimentale un poco mellifluo, mentre il manovrìo, sempre “scomodo”, scivoloso, della chitarra ad accordatura aperta e della voce di Lula Pena restituiscono anche a quel brano il suo pedigree più nobile. C’è chi continua a presentare l’artista di Lisbona come un’interprete di fado, ma a lei non è mai piaciuta questa definizione, la trova giustamente limitativa e chi si approccia a un suo concerto, capisce subito il perché. Ci sono tante latitudini che si incrociano nel suo background e tutto quel che le capita tra le mani semplicemente si “lulapenizza”, prende un tono tutto suo, si trasforma – lo dichiara lei stessa – in un vero e proprio “massaggio sonoro”. Immaginiamo quanto rigore, quante rinunce e quanto esercizio richieda una pratica di questo tipo. Sono scelte che includono anche la messa in scena scarna ed essenziale del suo “abito concertistico”. Una mise scenica ridotta all’osso che in uno spazio intimo e raccolto come quello della Casa del Jazz trova il suo habitat ideale e che restituisce al pubblico non soltanto la quota di un massaggio, ma anche quella di una vera e propria trance acustica di un’ora abbondante. Dalla quale si esce storditi, ammaliati e grati.

i