Lula libero riaccende le speranze in Brasile e in America latina. «Viene restituito un uomo diventato un simbolo», commenta l’ex presidente uruguayano Pepe Mujica. Un simbolo di dignità, giustizia e uguaglianza sociale. Di lotta alla povertà e di sovranità nazionale.

Uscito dal carcere dopo 580 giorni di prigionia, l’ex presidente brasiliano lo ha ribadito. «Non è me che hanno voluto incarcerare, ma un’idea». E quell’idea di giustizia sociale e di integrazione dell’America latina è disposto a portarla avanti «con più forza di prima».

Appena fuori dal carcere di Curitiba Lula è gia l’anti Bolsonaro, il presidente dell’odio razziale e di genere, l’uomo degli agrari che deforestano e dell’integralismo pentacostale, delle armi a tutti. E del vassallaggio agli Stati uniti di Donald Trump, dimostrato tre giorni fa votando all’Onu a favore del criminale embargo a Cuba (in compagnia di Israele).

Lula è un simbolo anche per un continente che da più di un mese è in fiamme. Non si tratta però di un ottobre rosso. Non è l’immagine di Che Guevara che viene innalzata, né i manifestanti intonano L’Internazionale. La ribellione e il malessere che partono a ridosso del Rio Bravo e si estendono fino alla Patagonia e che accomunano popolazioni indigene e giovani, donne e classi medie, è contro una politica neoliberista che li spinge in basso – nella miseria una parte sempre più consistente, il 10,2% dei 600 milioni di abitanti – e comunque tutti più lontani da un élite socioeconomica che si appropria di gran parte della ricchezza. E del futuro dei giovani, con una politica ambientale pericolosamente asservita al dogma della società dei consumi.

Il subcontinente latinoamericano non è l’area più povera del pianeta, ma quella con maggiore diseguaglianza. Dei dieci paesi con indice Gini – misura la diseguaglianza socioeconomica – più alto solo due non sono latinoamericani (Sudafrica e Ruanda).

Se a questa situazione si aggiunge che l’America latina è la regione più colpita dalla crisi globale – secondo l’Fmi crescerà dello 0,2% – si capisce perché la scintilla che accomuna i focolai di ribellione sia il «ya basta» dei giovani cileni, che vogliono farla finita con l’eredità di Pinochet e dei Chicago Boys. I quali come scrive Joseph Stglitz (Il prezzo della diseguaglianza) per trent’anni hanno predicato che le politiche neoliberiste avrebbero prodotto una ricchezza più rapida i cui benefici si sarebbero poi trasmessi verso il basso, assicurando un miglioramente della vita per tutti. Stiglitz prevedeva che l’evidenza dei fatti – ovvero che tale politica produce soprattutto diseguaglianza – avrebbe portato alla sfiducia nelle élites dirigenti e avrebbe eroso lo stato di diritto.

Il disprezzo della politica dei governi e dei governanti non implica però una disaffezione dalla medesima. Al contrario le lotte in corso – specie in Cile – e i risultati delle ultime elezioni dimostrano che vi è una società civile che vuole essere protagonista politica. Solo che quanto avviene non può essere interpretato (solo) secondo l’asse sinistra/destra. Secondo Marta Lagos, direttrice di Latinobarometro – «oggi le popolazioni non votano per la destra e la sinistra, ma per chi propone soluzioni ai loro problemi».

Le politiche redistributive attuate dai governi progressisti durante il decennio della “marea rosa” latinoamericana – seguita alla prima elezione di Lula nel 2003 – continuate poi in Venezuela e Bolivia non hanno cambiato l’asse di sviluppo estrattivista basato sullo sfruttamento delle commodities. E parallelamente non hanno incrementato la partecipazione dal basso e una cultura politica diffusa.

Lula è libero, ma non assolto. Solo se verrà annullata la condanna emessa in secondo grado potrà tornare attivamente alla politica e scendere in campo per riconquistare la presidenza del Brasile. Ma già , come diceva Mujica, può rappresentare quel leader progressista e pragmatico in grado di raccogliere la voce che sale dalle rivolte popolari.

A lui fanno riferimento i leader della “marea rosa” – Mujica, Correa (Ecuador), Lugo (Paraguay), Roussef (Brasile) che si sono riuniti ieri a Buenos Aires assieme a un’altra ventina di leader progressisti del Gruppo di Puebla chiamati a raccolta dal neoeletto presidente Alberto Fernandez per tracciare un programma di integrazione dell’America latina e politiche economiche e sociali per affrontare la crisi che attanaglia il subcontinente.
Non vi partecipano i leader di Cuba, come pure del Venezuela e del Nicaragua, che della pattuglia progressista formano l’ala radicale.

Ma L’Avana, assieme a Caracas, rimane il primo fronte ad assorbire gli attacchi che vengono dal potente vicino del Nord. Quanto avviene in Bolivia, dove è in corso un golpe programmato da mesi dall’ambasciata Usa e condotto dai comitati civici guidati da Camacho, che minacciano una secessione dei tre grandi centri -Santa Cruz, Cochabamba e Sucre- nel caso che il presidente Evo Morales non si dimetta, preoccupa particolarmente il vertice cubano. Sono 187 le misure che Donald Trump ha messo in atto contro l’isola da quando è stato eletto. L’embargo è diventato una spietata guerra economico-commerciale, senza però far capitolare Cuba. In clima di elezioni presidenziali, un’escalation dell’interventismo di Trump non è da escludere.