In una situazione ideale, democrazia e rispetto dei diritti dell’uomo vanno mano nella mano. Questo non avviene in Brasile – come in buona parte dei paesi dell’America latina. Lo ha confermato mercoledì il pubblico ministero brasiliano Mauricio Gotardo Gerun, che ha dichiarato non vincolante e non attuabile la raccomandazione del Comitato dei diritti dell’uomo dell’Onu affinché l’ex presidente Luiz Inácio da Silva «possa esercitare i suoi diritti politici» come candidato alle prossime elezioni del 7 ottobre.

Il pm ha ripetuto che Lula è ineleggibile non perché in carcere, ma perché condannato in secondo appello. E la “Lei de ficha limpia”, già firmata da Lula quando era presidente, prevede che un cittadino dichiarato colpevole di corruzione in due istanze non possa candidarsi alla presidenza.

Poco importa alla Fiscalía brasiliana che Lula abbia raccolto l’intenzione di voto (dati di mercoledì) del 39% dei brasiliani. Con queste premesse è più che probabile che, a metà settembre, il complicato sistema elettorale e giudiziale brasiliano neghi a Lula la partecipazione alle presidenziali.

In Brasile è dunque in corso «uno scontro fondamentale tra democrazia e Stato di diritto, tra elezioni libere e giuste e il rispetto dovuto a una sentenza» che applica una legge, ha scritto sul New York Times l’ex ministro degli Esteri messicano, Jorge Castañeda.

Il vulnus presentato dai giudici brasiliani è di non semplice risoluzione. Da una parte il «rispetto della legge che deve valere anche per i potenti». Dall’altra il diritto democratico di decine di milioni di cittadini brasiliani di votare per un candidato che hanno scelto, anche sapendo che è condannato.

Secondo Lula e i suoi sostenitori si tratta di una falsa contrapposizione. La proibizione di partecipare al processo elettorale deriva (per loro) da una sentenza riferita a un reato di corruzione relativamente minore – una casa peraltro non di proprietà dell’ex presidente né della sua defunta moglie – e per una condanna ottenuta grazie a testimoni che, in cambio della loro testimonianza, hanno avuto una consistente riduzione di pena. Fatto contestato da molti giuristi.

Per questo Lula, presentando la sua candidatura per il Partito dei lavoratori (Pt), ha affermato che la condanna avuta era «politica» e ha preteso «un processo giusto». In attesa di un sentenza definitiva, ha rivendicato il suo diritto di esprimersi politicamente. Diritto fondamentale che gli è stato negato: all’ex presidente è stato impedito di intervenire direttamente e liberamente in due dibattiti in tv cui hanno partecipato i principali candidati alle presidenziali.

Con la conseguenza che un giudice – Sérgio Moro, da anni impegnato contro Lula e il Pt – si è convertito nell’arbitro di elezioni importantissime, in un paese che sta uscendo dalla peggiore recessione economica degli ultimi dieci anni e mentre torna minacciosa l’estrema destra sostenuta dai militari. Il loro rappresentante, Jair Bolsonaro – sembra che tra i suoi consiglieri vi sia anche Steve Bannon – è secondo nelle intenzioni di voto (circa il 17% ).

Bolsonaro, che elogia apertamente la dittatura militare degli anni 1967-84, fa appello alla vena razzista, omofoba e sessista sempre presente nella società brasiliana. Ma soprattutto convoglia un sentimento di rifiuto di una classe politica governante ritenuta corrotta e inefficiente da una buona percentuale di giovani brasiliani, che l’hanno soprannominato “Bolsomito”.

Vari analisti ritengono che lo scandalo «Lava Jato» e l’azione della magistratura brasiliana siano importanti per suscitare la speranza, o la sensazione, che dopo secoli di privilegi, corruzione e leggi diverse per i potenti e il cittadino qualunque, «finalmente il Brasile stia entrando nella modernità in un ambito nel quale, come pure ai suoi vicini, gli è sempre andata male: lo Stato di diritto» ( Jorge Castañeda).

Per l’Onu e molti giuristi, politici e personalità internazionali, la democrazia però è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per uno Stato di diritto. L’Economist ha scritto che forse sono i giudici a governare il Brasile, ma che nel paese non vi è una dittatura. Il “golpe blando” contro l’ex presidente (eletto) Dilma Roussef, che ha portato alla presidenza Michel Temer, ha inferto un duro colpo alla democrazia brasiliana.

Se a settembre i giudici decideranno di escludere Lula dalle presidenziali e, peggio, se l’esclusione varrà anche per il candidato del Pt alla vicepresidenza Fernando Haddad, le conseguenze potranno essere ben più nefaste. Per questa ragione oltre all’Onu molte personalità internazionali – con il senatore Bernie Sanders e una decina di congressisti Usa – hanno chiesto che Lula sia presente nelle schede elettorali e non in carcere, condannando l’uso della lotta contro la corruzione come strumento per sbarazzarsi degli oppositori.