Se ci atteniamo alla cronologia, Luisa Carnés (nata a Madrid nel 1908) dovrebbe far parte della Generazione del ’27 in cui si inscrivono tra gli altri García Lorca, Dalí e Rafael Alberti, ma sappiamo che non aveva alcun legame con quel gruppo eterogeneo e con le donne straordinarie che ne facevano parte: presenze femminili poi sottovalutate o cancellate, e tornate di recente alla ribalta grazie al libro di Tània Balló Las sinsombrero, il cui titolo si rifà al comportamento «scandaloso» di due giovani pittrici, Maruja Mallo e Margarita Manso, insultate dai passanti madrileni quando decisero di togliersi ostentatamente il cappello in piena Puerta del Sol, dicendo che opprimeva la mente e soffocava le idee.

Carnés, in effetti, aveva poco in comune con quelle formidabili ragazze di buona famiglia: «Perché Luisa è operaia, non borghese. Quelle del ’27 fanno poesia, mentre Luisa scrive romanzi sociali», osserva David Becerra (autore di El realismo social en Espana. Historia de un olvido, acuto saggio del 2017); il gesto provocatorio di Mallo e Manso non poteva appartenere a una come lei, che aveva lasciato la scuola a undici anni per fare l’apprendista in un laboratorio di modisteria: i cappelli Luisa li confezionava, e la sua disordinata formazione da autodidatta se l’era guadagnata divorando libri e riviste nei rari momenti liberi.

LAVORANDO DI GIORNO e scrivendo di notte, ancora giovanissima era riuscita a pubblicare i primi racconti e a conquistarsi un posto di dattilografa in una casa editrice, che le cambiò la vita. Là, infatti, non solo conobbe il disegnatore Ramón Pujol (suo futuro marito e autore del celebre manifesto repubblicano ¡No pasarán!), ma pubblicò un secondo romanzo e prese a collaborare con giornali e riviste. Il giornalismo non tardò a diventare il suo mestiere, e a partire dal 1930 Luisa scrisse per testate importanti, approdando infine alla redazione di Mundo Obrero, l’organo del Partito Comunista cui nel frattempo aveva aderito.

Anche durante l’esilio in Messico (raggiunto alla fine della guerra civile insieme al suo nuovo compagno) si guadagnò da vivere come giornalista senza però abbandonare la narrativa, finché nel 1964 morì in un incidente d’auto, dopo aver festeggiato l’8 marzo con altre esiliate. Aveva cinquantanove anni, e, nonostante lasciasse un’opera apprezzata dai critici e composta da dieci romanzi, una settantina di racconti e centinaia di cronache, venne rapidamente dimenticata.
Un’invisibilità, la sua, suggellata dalla morte in esilio, ma che secondo Becerra deriva soprattutto dall’essere donna e comunista e dall’ambiguità della Transizione, che non si curò di recuperare ciò che la dittatura aveva «censurato totalmente o parzialmente».

PER LUNGO TEMPO ignorata o citata a piè di pagina, proprio come le sinsombrero oggi considerate «imprescindibili», Luisa Carnés è stata riscoperta qualche anno fa grazie allo storico Antonio Plaza e alla riedizione di un romanzo del 1930, Tea rooms. Mujeres obreras (novela-reportaje), ora proposto in italiano da Alegre nella collana «Working class» (Tea rooms. Operaie della ristorazione, traduzione di Alberto Prunetti, pp. 175, euro 15): una potente narrazione corale ambientata in una sala da tè e centrata su Matilde, orgogliosa ragazza di periferia e alter ego dell’autrice, che per qualche tempo lavorò come cameriera in una pasticceria madrilena.
Sin dalle prime pagine, lo sguardo sempre più consapevole della protagonista smaschera una società divisa tra «chi prende l’ascensore e chi deve usare le scale di servizio», denunciando il pesante carico di lavoro domestico che opprime le donne, l’imposizione del matrimonio e della maternità, gli aborti clandestini, la fame che spinge alla prostituzione, il ruolo della Chiesa, la repressione delle proteste operaie, la persecuzione degli oppositori (tra i personaggi c’è anche un mite gelataio italiano, padre di un ragazzo ucciso dai fascisti), la disoccupazione, l’estrema precarietà e l’assenza di diritti per chi lavora.

Per molti aspetti, quindi, Tea rooms coincide con la cosiddetta narrativa sociale della preguerra, ma impone la sua differenza grazie al combattivo piglio femminista presente anche negli articoli in cui l’autrice sottolineava la trasversalità del patriarcato, affermava che le donne dovevano emanciparsi «da ogni influenza, che si tratti della volontà del padre, del marito, del padrone della fabbrica, del capo ufficio» e ne rivendicava il diritto all’istruzione, al voto, alla libertà di movimento e di intervento in qualsiasi ambito.
L’altra costante della narrazione sono le lotte operaie, che fanno da sfondo alla trama e penetrano nel microcosmo della sala da tè – teatrino in cui è possibile rappresentare tutte le classi sociali – attraverso pensieri, dialoghi, impressioni; pochissime le scene «in esterni», perché Carnés, a partire dalla propria esperienza diretta, descrive il mondo con gli occhi di chi lo guarda dall’interno del locale, mentre l’aprirsi e chiudersi delle porte fornisce una colonna sonora di rumori e voci improvvisi e spezzati.

BASTA LA DICITURA «romanzo-reportage» del titolo originale, che nessuna delle edizioni attuali riporta, ad annunciare in modo esplicito la precisione naturalista con cui vengono disegnati tanto la quotidianità delle lavoratrici (l’immondo spogliatoio, il salario miserabile, la fatica, le paure e i sogni) quanto i personaggi, incluse le comparse più effimere: il travestito, la mantenuta, la sottomessa moglie borghese, la romantica sventata che finirà sul tavolo di una mammana, la dura e corrotta responsabile del personale.
Oggettivo ma non imparziale e per nulla intenzionato a esserlo, perché Carnés rivendica apertamente l’utopia comunista, Tea room evita le tentazioni moraleggianti e si affida a una prosa tagliente, piena di dettagli e notazioni visive che lo rendono simile a un murale popolato di vivaci figurine o a un’affollata inquadratura cinematografica.

AL DI LÀ del valore letterario, il romanzo va visto come un’efficace testimonianza sulla condizione femminile e sul turbolento periodo che precedette la Seconda Repubblica spagnola, ma anche come uno specchio inquietante nel quale riconoscersi, tanto che Marta Sanz, una delle migliori scrittrici spagnole, non manca di farne presente l’attualità: oggi come ieri, infatti, «le pratiche capitaliste automatizzano i comportamenti e la società si divide in ricchi, poveri e presuntuose classi medie inconsapevoli della propria precarietà».

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Appuntamenti. Dal 18 al 20 giugno a Roma il Festival di Alegre

Il libro di Luisa Carnés verrà presentato a Roma, negli spazi di Scup, sabato 19 giugno alle 20.30. Ne dialogheranno Alberto Prunetti, Jennifer Guerra e Alessandra Pigliaru. Dal 18 al 20 giugno torna infatti il festival – targato Alegre – di Letteratura Sociale «Contrattacco», per discutere intorno a tre parole: «Il dominio», «La cura» e «Il reincanto». Tra gli altri, interverranno: Gaia Benzi, Francesca Coin, Marie Moise, Sara Pollice, Simona Lunadei, Amir Issaa, Giulio Calella, Marco d’Eramo, Gad Lerner, Alessandro Portelli, Wu Ming 1. Maggiori info su http://edizionialegre.it

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SCHEDA. Ballerini di tip tap e «biliardini»

Che cosa c’entra Luisa Carnés con il calcio balilla, detto anche biliardino o futbolín? In apparenza niente, finché non si scopre che in Messico le sue opere furono pubblicate dal suo fedele amico Alejandro Finisterre, alias Alexandre de Fisterra, alias Alejandro Campos Ramírez, nato in Galizia nel 1919. Vita rocambolesca che include una laurea in filosofia presa a Parigi, un dirottamento aereo, una lunga attività di agitatore culturale e una stagione come ballerino di tip tap, l’ha raccontata Alessandro Spataro nella graphic novel «Biliardino» (BAO 2015), in cui si dà conto dell’invenzione di un gioco amatissimo, attribuita dagli spagnoli a questo avventuroso poeta-scrittore-editore. L’idea del futbolín nacque durante la guerra civile, mentre Finisterre era ricoverato all’ospedale di Montserrat e vedeva ogni giorno bambini mutilati dalle bombe, che non avrebbero mai più giocato a calcio; nonostante avesse depositato un brevetto nel 1937, però, smarrì i documenti e dalla sua invenzione non ricavò un soldo, ma si rifece con quella di un ingegnoso volta-pagine a pedale per pianisti. In Messico, dove trascorse buona parte dell’esilio, fondò una casa editrice che aveva in catalogo non solo i libri di Carnès, ma quelli di buona parte dei rifugiati spagnoli; una volta rientrato in Spagna, fu per lui una missione, e prima di morire nel 2007 fece in tempo ad assistere al primo, timido risveglio di interesse per l’opera di Luisa.