Nel primo capitolo delle sue celebri memorie, «Mon dernier soupir», Luis Buñuel sosteneva che «il ricordo è costantemente contaminato dall’immaginazione e dal sogno». Nulla di più vero. Che siano il frutto di un evento corroborato da solide testimonianze o abbiano avuto luogo nei meandri della psiche, le esperienze registrate dalla memoria inglobano lo strascico del dubbio, del desiderio inappagato, dell’impulso alla rimozione (più o meno parziale, più o meno volontario). L’autobiografia è pura drammaturgia, un testo letterario dotato della più feconda autonomia. Viaggiare nella memoria è confrontarsi con un simulacro del vissuto, ri-costituire un’immagine di sé in cui far convergere il riflesso di un passato alterato dal ricordo e le tensioni esistenziali del presente, ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto/dovuto essere, manomissioni e omissioni. Silenzi, rumori di fondo, parole smorzate. E parole gridate, dall’alto di un pulpito insidiato – spesso, non sempre – dai sussulti dell’ego, dall’identità di sé che si vorrebbe consegnare alla posterità.

L’editore madrileno Cátedra, con la curatela di Jo Evans e Breixo Viejo, pubblica un’opera monumentale, a suo modo definitiva, che rimette in discussione alcuni presupposti dell’autobiografismo e dell’«autorialismo»: un volume di oltre 700 pagine, filologicamente accurato, che raccoglie un’ampia selezione di corrispondenze – missive, telegrammi, cartoline, appunti – tenute da Buñuel nell’arco di tutta una vita, dal 1909 al 1983, con interlocutori di composita provenienza (tanti i nomi illustri: Federico García Lorca, Salvador Dalí, André Breton, Man Ray, Jean Cocteau, Jean Vigo, Ado Kyrou, Georges Sadoul, Jean-Claude Carrière, Louis Malle, François Truffaut, Carlos Saura, Francisco Rabal, Fernando Rey, Octavio Paz, Julio Cortázar, Max Aub, Dino Buzzati, Cesare Zavattini, Federico Fellini…). Parole inviate, parole ricevute. Un percorso biografico frastagliato, privo di ingessature, fatto di aneddoti, folgoranti intuizioni ed ellissi vertiginose. L’urgenza dell’appunto libera la scrittura dall’asservimento alle convenzioni e sottrae il tono di queste corrispondenze alla rigidità delle dichiarazioni «ufficiali», favorendo l’emersione del «non detto», di ciò che in un bilancio autobiografico rimarrebbe incagliato nelle reti dell’oblio, quando non in quelle dell’autocensura. Dato per assimilato il motivo pirandelliano secondo cui risulta inutile inseguire una definizione concreta di «reale» (ogni maschera è maschera di un’altra maschera, cfr. Alain Badiou, «À la recherche du réel perdu»), la forma dell’epistolario consente il confronto con una selezione di testi «catturati» nel solco di una commovente provvisorietà, inevitabilmente diseguali e frammentari, ma anche affratellati da un denominatore comune: nessuno di essi è stato scritto per essere pubblicato. Sono testi che registrano le speranze di un presente destinato a dissolversi nella memoria di chi l’ha vissuto, nell’incolpevole silenzio dell’oblio. Testi nei quali si concretizzano, qui e ora, davanti ai nostri occhi, progetti fatalmente votati all’incompiutezza, come quella sceneggiatura – anzi, quello «scénario» – che Buñuel sollecitò a García Lorca nel giugno del 1926, fantasticando su un debutto alla regia che sembrava imminente. O come quella «grande pellicola biografica» su Goya che il cineasta di Calanda avrebbe dovuto realizzare nel 1927-1928 per commemorare i cento anni dalla morte del grande pittore aragonese. Un libro appassionante, sostanziato da un apparato di note esplicative che illumina sull’eccezionale valore delle ricerche condotte.

 

A cura di Jo Evans, Breixo Viejo
Luis Buñuel Correspondencia escogida
Ediciones Cátedra