Idealista e inquieto, autore anticonvenzionale di brani struggenti, Luigi Tenco il 26 gennaio del 1967 si spara un colpo di pistola alla tempia nella stanza 219 dell’hotel Savoy di Sanremo, dove al festival ha cantato Ciao amore ciao, canzone del disagio dell’emigrazione nell’Italia del boom, bocciata senza appello dalle giurie. Prima di esibirsi rilascia interviste al vetriolo contro la retorica vaga della «Linea verde» di Mogol, «la protesta annacquata, ecologista, il ribellismo fine a sé stesso», lui che canta la rabbia di una generazione, intercetta il disincanto sociale che presto sfocerà nelle proteste studentesche di Valle Giulia. Ma vuole parlare e arrivare al grande pubblico, anche rischiando l’incoerenza, che è proprio la ferita aperta e dolorosa sulla quale si concentra il libro di Antonio Iovane Un uomo solo (Mondadori, 2022), il romanzo di quella giornata drammatica, fatto dei movimenti che precedono la fine, ricostruiti con un abile montaggio di materiali narrativi eterogenei miscelati all’invenzione dal vero e ai punti di vista dei diversi protagonisti.

LA RCA, la casa discografica dei grandi alla quale è da poco arrivato il cantante ha preparato l’operazione Tenco-Dalida, la diva e il poeta della canzone d’autore si conoscono a Parigi e nasce un rapporto «incatenante», come lo definisce lei, «chi ci conosce bene dice che sembriamo gli unici amanti su questa terra». Ma quando Tenco arriva sul palco annunciato da Mike Buongiorno è uno straccio, ha bevuto diversi whisky, non guarda il pubblico, «sembra quasi aver dimenticato le strofe», perché «nei suoi occhi mentre cantava l’ultima canzone c’era la cupa angoscia» che aveva visto un poeta che lo aveva capito, Salvatore Quasimodo, il «prolungato Ciao» come un commiato. Intorno il Circo Barnum del festival, Milva, Modugno, Pitney, Zanicchi, quello delle canzonette, sempre uguale, il patron Gianni Ravera, le voci democristiane di Zatterin e Lello Bersani, ma anche un giovanissimo Lucio Dalla, di cui Tenco apprezzava il «piglio da profeta piccolo». Un altro che lo conosceva bene, Giorgio Gaber, dirà il giorno dopo il suicidio a un giornalista che era «un uomo fragile», ma soprattutto «era prima di ogni altra cosa un uomo solo», quel ragazzo che aveva interrotto gli studi di ingegneria perché sosteneva: «Io non costruirò mai ponti e case per far accumulare quattrini ai potenti. Meglio che nelle case arrivino le mie canzoni».