Per rendere credibile la candidatura a premier per il Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio si divide tra Renzi e Macron. Come fece l’ex premier al tempo del varo del Jobs Act ieri al «festival del lavoro» di Torino ha attaccato i sindacati: «Si auto-riformino o ci pensiamo noi». Come il presidente francese anche il pentastellato vuole trasformare il paese in una «Smart Nation» (Macron dice: «Start Up Nation»). Due proposte che seguono il manuale del populista: anti-casta e generazionale (i sindacati sono «vecchi» e hanno «pensioni d’oro»); neo-liberista (elogio degli «startupperoi» a cui Macron ha riconosciuto «un’agilità quasi animale»); una spruzzata di sinistra quando chiede la «cancellazione del Jobs Act» e un’occhio alla Lega perché anche lui vuole «cambiare la riforma Fornero sulle pensioni». Non è mancato un riferimento a Confindustria con il «taglio del costo del lavoro», totem evocato negli ultimi due anni per alleggerire le imprese «e gli studi professionali». In pratica la decontribuzione di Renzi-Gentiloni con altri mezzi.

I TONI PERENTORI, e gli argomenti, contro i sindacati non sono molto diversi da quelli di Renzi quando attaccava la Cgil con la gag sul gettone e l’Iphone. «Se cambia il lavoro deve cambiare il sindacato – ha detto il candidato «smart» – Bisogna dare la possibilità a organizzazioni più giovani di sedere a tavoli e agli stessi giovani di entrare nel sindacato. Un sindacalista che prende una pensione d’oro e finanziamenti da tutte le parti ha poca credibilità a rappresentare un giovane di 31 anni. Se sarà necessario intervenire per agevolare questa riforma dei sindacati, lo faremo». «Stiamo tornando all’analfabetismo della Costituzione – ha risposto Susanna Camusso (Cgil) – Parla di cose che non conosce con un linguaggio autoritario e insopportabile. Non sa come è fatto un sindacato, non sa che non è un’organizzazione statuale di cui decidi le modalità organizzative, è una libera associazione». Ironico il commento di Carmelo Barbagallo (Uil): «Avanti un altro». Il ministro del lavoro Poletti – che ha riscoperto la «concertazione» – ha invitato al «rispetto dell’autonomia dei sindacati». Furlan della Cisl ha chiesto a Di Maio di «lasciare perdere inutili polemiche». Di Maio, forse, allude a una riforma della rappresentanza. La stessa evocata da Renzi. Oggi è ancora in ballo. Vari esponenti del governo Gentiloni l’hanno annunciata a giugno, all’indomani di uno sciopero nei trasporti dei sindacati di base. In quel caso si voleva limitare il loro diritto di sciopero, non contenti di una legislazione «anti-cobas» che lo ha già limitato. Per ragioni diverse la riforma è stata evocata dai sindacati confederali e di base. Su questo punto il candidato M5S non ha aggiunto altro. Gli è bastato lanciare un sasso nello stesso punto di Renzi e, molto prima, di Berlusconi.

«LA SMART NATION sta arrivando – ha invece profetizzato – un nuovo modello di paese in cui i lavori si trasformano e non dobbiamo avere paura che si perdano posti di lavoro». È il vangelo mainstream sull’automazione digitale, un mix di tecno-entusiasmo per la Silicon Valley e di tecno-apocalisse per la scomparsa dei posti di lavoro. Il legame tra l’ascesa delle prime e la scomparsa dei secondi non è affatto certo. Gli economisti riflettono anche sul ruolo che ha l’automazione nel taglio dei salari, argomento più solido sul quale Di Maio ha glissato. Anche la previsione sul «50% dei posti di lavoro legati al settore creativo, turismo e cultura entro il 2025» è un’ipotesi. Una ricerca dei consulenti del lavoro presentata tre giorni fa a Torino sostiene che i mestieri cresciuti di più in Italia tra il 2012 e il 2016 sono legati alla logistica e alla vendita al dettaglio. Questo accadrà sempre di più perché la rivoluzione digitale è una rivoluzione logistica che passa dalle «App». Di Maio crede che Internet sia una «grande fabbrica di posti di lavoro» che impedirà ai giovani di «andare all’estero». È una convinzione ingenua. Le piattaforme mettono al lavoro senza tutele i precari nelle fabbriche del click in Asia come nel resto del mondo. Indipendentemente dalla residenza.

IL PROGRAMMA DEL MOVIMENTO CINQUE STELLE prevede investimenti sulla diffusione di Internet. Se fosse come in Francia da noi ci sarebbero 186 mila occupati in più ha detto Di Maio. La mancanza in Europa di capitali di rischio», fondamentali per lo sviluppo degli «unicorni» come Uber, non lo preoccupa. Lo Stato tornerà a investire sull’innovazione attraverso «la creazione di una banca pubblica» utile per creare «nuove start up». Una sintesi tra capitale finanziario e Stato programmatore presente anche nella proposta Macron centrata sulla «naturalità» dello spirito imprenditoriale dei «nativi digitali». Di Maio crede nella stessa teologia neo-liberista.

I CINQUE STELLE INVESTIRANNO due miliardi nei centri per l’impiego con i quali «lo Stato dovrebbe agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro». Per far funzionare le «politiche attive» servirebbe una riforma costituzionale dato che il collocamento è conteso tra Stato e regioni. Renzi l’aveva legata al suo referendum del 4 dicembre ed è stato respinto, lasciando l’agenzia nazionale per le politiche attive (Anpal)in mezzo al guado. Di Maio non ha citato questo dettaglio. Confermati i «17 miliardi» per il «reddito di cittadinanza», in realtà un «reddito minimo» condizionato all’adesione a un progetto di inserimento lavorativo e alla galera per chi sgarra. Per chi lavorerà in nero percependo i 780 euro previsti Di Maio ha annunciato pene «fino a sei anni di galera» perché «non siamo in Svezia». Come se in Svezia questo fosse possibile.