Filosofo, antropologo, regista, Luigi Di Gianni recentemente scomparso è definito il filosofo della macchina da presa ed è uno dei massimi registi e documentaristi italiani. Uno straordinario impatto antropologico segna i suoi film che esplorano l’intreccio tra ritualità magico-religiosa e Cattolicesimo nell’Italia meridionale, la fatica e la dignità del lavoro, la fragilità dell’uomo soggiogato dalla forza degli eventi.

Qual è stato il tuo saggio al Centro Sperimentale?
Mi sono diplomato nel 1954 con il film L’arresto, tratto dal primo capitolo de Il processo di Franz Kafka. Fu proiettato alla Mostra del Cinema di Venezia. Tra il pubblico era presente anche Luchino Visconti, il quale alla fine del film fu gentile e mi disse una cosa molto bella che per me fu un incoraggiamento: «Argomento molto difficile, ma mano felice». Un ricordo che mi rimarrà per sempre impresso nella memoria.

Com’è nata la passione documentaristica?
Un po’ per caso. È stato l’antropologo e storico delle religioni Ernesto de Martino a trasmettermi la passione per il documentario. Siamo nel 1958. Lessi su Il Messaggero di Roma la notizia di una ‘spedizione’ di Ernesto de Martino in Lucania sulle sopravvivenze delle forme magiche. È una regione che m’era rimasta nell’animo fin da bambino. Appena letto l’articolo, mi recai da de Martino assieme a Romano Calisi, giovane antropologo, portandogli una scaletta per un documentario antropologico. Lesse la scaletta e ci disse che andava bene, ma per apporre la sua firma come consulente scientifico doveva prima visionare il documentario, e così alla fine avvenne. Da quel momento nacque una vera amicizia con Ernesto de Martino. Lo frequentavo spesso. Decisi così di passare al documentario, anche se a metà degli anni Cinquanta stavo cercando di debuttare con un film ispirato a un episodio accaduto ad Ancona: la drammatica vicenda di Michele Cannarozzo. Siamo nel 1955. Cannarozzo, un maresciallo della Finanza siciliano in servizio ad Ancona, esasperato per i continui tentativi falliti di ottenere una casa – viveva con la famiglia in un seminterrato, tetro e disagevole –, scagliò, in un impeto di folle rivolta, alcune bombe in un cinema mentre proiettavano Pane amore e gelosia, causando morti e feriti. Infine si dette alla fuga e si suicidò. Volevo farne un caso emblematico della condizione umana, della solitudine umana, della disperazione di un uomo che a un certo momento protesta non soltanto contro un certo tipo di società, ma protesta contro l’umanità intera perché nessuno lo ascolta. Un simbolo della follia che può scaturire e deflagrare all’interno di chiunque si ritenga di essere una vittima dell’ingiustizia umana. Conservo ancora gli appunti di questo film che tenevo molto a realizzare. Chiesi consiglio e sostegno ad Alessandro Blasetti, il quale nutriva simpatia per me dai tempi del Centro Sperimentale, dov’era docente di Regia, ma il progetto rimase sulla carta.

Hai incontrato difficoltà per realizzare il tuo primo documentario, Magia Lucana?
Certamente. Era il mio primo film e gli esordi, anche per i documentaristi, erano difficili. Ricordo che mi presentai alla Documento Film e parlai con Fulvio Lucisano che in quel periodo era impiegato in quella Casa di Produzione. Fu proprio Lucisano a dirmi che la produzione non poteva rischiare tutto per un esordiente, anche se ero diplomato al Centro Sperimentale. La Documento Film, dunque, decise di rischiare a metà mettendo la pellicola e i mezzi tecnici; il sottoscritto avrebbe dovuto metterci i soldi in contanti. Ma io non avevo una lira. Mi rivolsi allora a mia madre che era una donna molto intelligente, piena d’inventiva, anche se aveva frequentato solo la quinta elementare. Lei riuscì a trovare, miracolosamente, cinquecento mila lire. Il budget totale era di un milione. Riuscii grazie a questi soldi a girare il documentario. Magia Lucana ebbe un buon successo; partecipò alla Mostra del Cinema di Venezia vincendo il premio per i documentari.

Con de Martino hai continuato a lavorare?
Sì, fu consulente per altri miei lavori. Era uno scienziato e nel contempo un brillante scrittore, un uomo di grande cultura dai suggerimenti preziosi. Aveva capito che non mi piaceva il realismo naturalistico e che mi affascinavano i casi estremi. Non mi interessa la realtà come documentazione. Il mio è un realismo magico e metaforico; i miei documentari sono una sintesi e un’alternanza di frontalità e ricostruzione che sfocia nella finzione. Io sono per i casi estremi. Quindi il documentario, che per me è stato un pretesto per costruire il fondo della finzione, è stato all’insegna del cinema estremo. Chiaramente è una scelta stilistica. Per esempio, de Martino l’aveva capito perfettamente e difatti mi suggeriva sempre casi estremi. (…)

Mi parli di Franz Kafka, presente nella tua filmografia sin dagli esordi?
Ho letto Kafka a vent’anni. È stata una folgorazione! Kafka mi ha sempre seguito anche nei documentari. L’ho sempre rievocato nelle atmosfere, nelle situazioni anche grottesche. Sicuramente è kafkiano anche il mio interesse per la rappresentazione degli ultimi, degli inermi, la mia volontà di esprimere attraverso il cinema il mio attaccamento per loro. Sono un pessimista! Nei miei film c’è una visione metastorica. Logicamente è presente anche il mio pensiero filosofico che si rifà all’Esistenzialismo con particolare riferimento a Martin Heidegger; molto affascinante il saggio Sein und Zeit. Soprattutto il tema dell’uomo, sentinella del nulla. L’antropologo tedesco Thomas Hauschild ha definito il mio cinema/documentario ‘Romanticismo nero’. Un giudizio che condivido. Nel 1978 realizzai per la Rai Il Processo, dall’omonimo romanzo di Kafka. Ottimo cast. Ebbi molte soddisfazioni sia di critica che di pubblico. Tale edizione si trova anche in DVD. Nel 1980 la dirigenza della Rai, invece, mi bocciò la realizzazione de Il castello, sempre di Kafka, ritenuto troppo complesso. Insomma, col cambio dei vertici dirigenziali mutò anche l’indirizzo culturale dell’azienda. Era iniziato, purtroppo, il declino culturale della Rai.
(…)
Cos’è per te la musica e che funzione svolge nei tuoi film?
Premetto una cosa. Da giovanissimo avevo tre malattie: la musica, la filosofia e il cinema. Sono rimaste tutte e tre! Detto ciò, adoro Mozart e Carlo Gesualdo da Venosa, anche se l’interesse più profondo si rivolge al Novecento, un secolo terribile che al tempo stesso ha dato moltissimo in campo artistico. (…) Per i miei film, le musiche sono state scritte da compositori quali Egisto Macchi, Daniele Paris e Vittorio Gelmetti.

Quali sono i luoghi-simbolo nelle tue opere?
Il mondo rurale col suo paesaggio è stato una grande fonte d’ispirazione per i miei film. Amo il profondo Sud. Mi affascina la Lucania: il Materano con i suoi Sassi, Craco e alcuni paesi potentini, Albano di Lucania, San Cataldo Avigliano. È una terra povera ma ricca di forti tradizioni che devono essere tutelate per la salvaguardia dell’identità culturale del territorio e della popolazione, alla quale raccomando sempre di non vergognarsi del proprio passato e di essere stata povera. La povertà non è solo tragedia se la si guarda con gli occhi di chi è riuscito ad uscirne senza rinnegarla. E poi c’è la Napoli fuori dai luoghi comuni. La Napoli magica, esoterica, del silenzio, misterica, del sottosuolo. Avrebbe dovuto essere il titolo di un altro mio film… ahimè mai realizzato!

* Domenico Sabino, Antropologo, autore del documentario «Luigi Di Gianni. Cinema dell’essere» che sarà programmato martedì 11 giugno al Cineporto di Lecce.