Ha avuto un enorme impatto mediatico il discorso tenuto da Emma Watson all’Onu in favore dei diritti delle donne. La giovane attrice, modella, stilista inglese divenuta famosa con la saga cinematografica di Harry Potter ha ottenuto uno speciale effetto magico: un discorso basato sulle «pari opportunità» e l’uguaglianza tra maschi e femmine ha rilanciato orgogliosamente il termine femminismo. Watson ha addirittura rivendicato di essersi identificata col femminismo sin dall’età di 8 anni, quando confondeva gli amichetti per il piglio da «boss» che assumeva nei giochi comuni.

Ma il suo discorso è stato rivolto all’altro sesso, con lo slogan «he for she». Lui per lei. Emma ha parlato di «femministi inconsapevoli», uomini che non hanno ancora capito che battersi accanto alle donne e per i loro diritti procurerà vantaggi anche a loro, schiavi di stereotipi che li obbligano all’esercizio della prevaricazione, del controllo, della violenza. Tutte cose di cui dovrebbero essere ben contenti di fare a meno. Singolare il commento del Sole 24 ore: nel discorso della Watson «non c’è 68ttismo, non c’è contrapposizione, non c’è chiusura. C’è un femminismo nuovo, che forse può farci fare pace con una parola così bistrattata».

Un femminismo forse depurato dalla sua carica di radicale cambiamento?

L’appello a mettersi dalla parte delle donne è stato prontamente raccolto dal Lui Beppe Severgnini, che venerdì scorso ha presentato sul Corsera le tre giornate di manifestazioni milanesi «Tempo delle donne». Con tutta una serie di distinguo però. Intanto per Lui gli uomini peggiori sarebbero proprio «i femministi». E sin qui va anche bene. Ma poi il noto giornalista si lancia in una serie di consigli su come le donne dovrebbero vivere la loro libertà, nello stesso momento in cui afferma che questa libertà consiste nell’essere «chi vogliono, non ciò che ci attendiamo da loro».

Lui però si attende che non vengano «ricostruiti gli steccati degli anni Settanta. Noi contro voi, come eserciti prima della battaglia. Un femminismo iracondo che ha portato poco…». Una frase che ha determinato le comprensibili, e per nulla iraconde, proteste di una femminista come Lea Melandri, che ha invitato Severgnini a documentarsi un po’ meglio su che cosa hanno «portato» i pensieri e le pratiche del femminismo dagli anni ’70 in poi.

Penso che un interessante equivoco sia proprio l’uso della parola libertà. La manifestazione promossa dal Corriere ha adottato come colonna sonora la notissima canzone di Gaber. Quando ero giovane preferivo il primo Gaber intimista a quello successivo, più sociopolitico, per dir così. Quella canzone, che pure tanto piace anche a sinistra, non mi ha mai convinto. La libertà non è star sopra un albero? E perché no? La libertà è partecipazione? Certo, anche. Ma la partecipazione esaurisce la libertà? Non mi sentirei proprio di affermarlo.

Tanto più la libertà femminile. Ai miei occhi è certamente un bene che alcuni uomini, finalmente, Severgnini compreso, si accorgano pubblicamente che qualcosa di profondo è accaduto nel modo in cui le donne vivono la propria libertà.

Penso anche però che per noi uomini resti ancora una specie di mistero, che ammiriamo (come conclude il commento del giornalista del Corriere) ma che ha anche un effetto perturbante. «Raccontare le donne di oggi – ammette il nostro Lui – non è facile, per noi maschi».

Ancora più difficile, per noi maschi, raccontare gli uomini di oggi, di fronte a questa nuova, allarmante libertà, nata improvvisamente fuori di noi.