«Mancata riduzione degli elevati livelli di emissioni» e «forte inquinamento dell’aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell’Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti». Sono queste le motivazioni che hanno portato la Commissione Ue, su raccomandazione del Commissario europeo per l’ambiente Janez Potocnik, ad inviare all’Italia una lettera di costituzione in mora, concedendole due mesi per rispondere. L’organismo europeo ha infatti «accertato» come Roma non abbia garantito, e non garantisca tutt’ora, che l’Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Ritenendoci «inadempienti» anche sulla norma per la responsabilità ambientale «chi inquina paga». Bruxelles ha infatti imputato all’Italia anche e soprattutto la «mancata riduzione degli elevati livelli di emissioni non controllate generate durante il processo di produzione dell’acciaio». Infatti «le autorità italiane non hanno garantito che l’operatore dello stabilimento Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati». Un atto d’accusa totale, che però arriva con un certo ritardo. Visto che si afferma né più né meno quanto sostenuto dal gip di Taranto Patrizia Todisco nell’ordinanza con la quale nel luglio 2012 ordinò il sequestro dell’area a caldo del siderurgico. Una decisione quasi obbligata quella della Ue, che ha ricevuto una forte spinta anche e soprattutto dall’iniziativa di singoli cittadini di Taranto e di diverse Ong.
Da oggi, dunque, inizierà la fase di dialogo tra il governo e l’Ue. «Vogliamo intensificare le nostre relazioni con il governo. Questo è l’obiettivo dell’infrazione» ha detto il commissario Potocnik. «La situazione è molto complessa» ha aggiunto, mostrando apprezzamento per l’impegno delle autorità italiane. Ciononostante, «ora sarà necessario ricevere informazioni specifiche dall’Italia. Le buone intenzioni devono essere dimostrate con fatti concreti». Uno degli strumenti proposti dall’Ue è l’accordo di partnership, che può essere attuato se uno stato membro, per un’area specifica, ritiene utile «guardare assieme alla questione, perché c’è un problema sistemico, cercare risposte nelle migliori pratiche in Ue, sulle quali abbiamo una visione migliore rispetto al singolo stato membro. Questa è una delle possibilità» ha sostenuto Potocnik. Eppure, pare siano state parecchie le pressioni per evitare la messa in mora. Ma su questo argomento, nessuno sconto: «Prendo le decisioni basandole sui fatti e sulle indicazioni degli esperti. Non importa quale Paese sia, quale il settore: siamo obbligati a svolgere il ruolo di guardiani del trattato e questo è quello che facciamo: vogliamo che tutto sia in regola». E il primo passo in questa direzione, secondo il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, sarà «l’approvazione del nuovo piano ambientale: gli interventi di risanamento e di innovazione che i commissari stanno ultimando sono parte essenziale di questa risposta», ha detto il ministro.
Intanto oggi, sempre se si terrà il consiglio dei ministri, in molti si attendono l’approvazione del decreto già annunciato dal ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato. Ma la strada è alquanto intricata. Tant’è che proprio ieri il gruppo Riva Acciaio ha chiesto a governo, custode giudiziario e banche, di convocare un tavolo per sbloccare la situazione. Il nocciolo della questione, del resto, è oramai chiaro: la titolarità e il controllo delle aziende sequestrate spetta al custode giudiziario, che ha il compito di garantire la continuità produttiva da un lato e dall’altro il rispetto delle sentenze giudiziarie. Il gruppo Riva e il governo invece, vorrebbero lasciare questo compito agli organi societari lasciando al custode un semplice ruolo di supervisore. Per questo sin da subito le banche hanno sospeso i fidi.