In una giornata d’autunno del 1943 passò per il camino di Auschwitz anche un anziano ebreo cecoslovacco. Si chiamava Ludwig Pollak, ed era uno dei 1023 che la Gestapo aveva catturato a Roma nella retata del 16 ottobre. Lo avevano avvisato del pericolo, e un monsignore suo amico gli aveva offerto ospitalità in Vaticano, ma lui l’aveva rifiutata. Forse pensava che i nazisti avrebbero lasciato tranquillo un inoffensivo signore di settantacinque anni. Si sbagliava, ovviamente: lo misero su un treno e appena arrivato a destinazione fu avviato alle camere a gas. Per i suoi carnefici era solo un ebreo da eliminare, ma per il precedente mezzo secolo Pollak era stato una figura di primissimo piano nel mondo dell’archeologia e del commercio internazionale d’arte. Oggi, a 150 anni dalla nascita e a 80 dalla promulgazione delle leggi razziali, Roma, la sua patria di adozione (amava firmarsi Ludovicus Romanus) gli dedica una mostra, articolata in due sedi: il Museo Barracco, di cui egli fu primo direttore onorario e dove sono custoditi la sua biblioteca e il suo archivio, e il Museo Ebraico.
Curata con intelligenza e amore da Orietta Rossini e Olga Melasecchi, la mostra – che rimarrà aperta fino al prossimo 5 maggio – non è solamente un commosso omaggio alla vittima dell’olocausto. La ricca messe di opere d’arte e di documenti (fotografie, lettere, diari) e i pregevoli saggi raccolti nel catalogo edito da Gangemi (Ludwig Pollak Archeologo e Mercante d’Arte. Praga 1868 – Auschwitz 1943. Gli anni d’oro del collezionismo internazionale da Giovanni Barracco a Sigmund Freud, pp. 272, € 35,00) mettono a fuoco come mai prima era stato fatto la vicenda personale e professionale di un uomo sotto molti aspetti eccezionale.
Da Praga, dove era nato, Pollak si trasferì poco più che ventenne a Vienna per frequentare il famoso Seminario archeologico-epigrafico fondato da Alexander Conze, lo scavatore di Samotracia e di Pergamo, e da Otto Hirschfeld, curatore insieme a Mommsen del monumentale Corpus Inscriptionum Latinarum. Lì entrò a contatto con molti luminari dell’antichistica germanica, tra cui Emanuel Löwy, che sarebbe stato il primo professore di archeologia classica nell’università di Roma. Pollak avrebbe voluto intraprendere la carriera universitaria ma il ‘barone’ con cui si laureò – il celebre Otto Benndorf – non ritenne di favorire questa aspirazione. Gli diede però un contentino: una borsa per perfezionarsi a Roma. Questo segnò la vita del giovane Ludwig. Arrivato nella città eterna nel 1893, vi avrebbe vissuto – tranne il forzato esilio durante la prima guerra mondiale – fino all’anno della sua morte. La carriera che vi fece, ricca di gratificazioni – anche materiali – non dovette fargli rimpiangere troppo quella accademica.
Come archeologo, si fece presto una solida fama di connoisseur grazie ad acuni clamorosi exploits. Nel 1903, visitando la bottega di uno scalpellino romano, vide un braccio di marmo frammentario con un serpente aggrovigliato ed ebbe un’intuizione geniale, di quelle che tutti gli archeologi sognano di avere almeno una volta nella vita: capì che poteva trattarsi nientemeno che del braccio mancante di Laocoonte, nell’omonimo gruppo trovato nel 1506, quel braccio che i primi restauratori avevano erroneamente immaginato proteso verso l’alto. Il ‘braccio Pollak’ – donato generosamente dallo scopritore al Vaticano – invece era piegato a gomito verso l’interno. Anche se si dovette aspettare il 1959 per vederlo inserito al suo posto, fu subito chiaro che la fortunata scoperta cambiava la percezione estetica dell’opera, restituendole un ritmo serrato e raccolto, ben diverso da quello aperto ed enfatico che le si era voluto arbitrariamente dare. Un altro ‘scoop’ di Pollak fu il riconoscimento della cosiddetta Atena Stroganoff, una statua che il collezionista russo teneva in un locale di servizio del suo palazzo in via Gregoriana, considerandola falsa. Pollak non solo dimostrò la sua autenticità, ma capì che faceva parte di una replica dell’Atena e Marsia di Mirone e che si completava con il Marsia dei Musei Vaticani. Quando poi riconobbe nella cosiddetta Fanciulla di Anzio un importante originale ellenistico, facendola provvidamente acquistare allo stato italiano, si dovette ammettere che Pollak ‘aveva naso’ e l’archeologo ceco, già abile mercante in proprio, diventò il consulente-mediatore dei più facoltosi collezionisti dell’epoca: il citato conte Stroganoff, il nobile diplomatico russo Alexander Nelidow, il danese Carl Jacobsen, proprietario delle birrerie Carlsberg e fondatore della Ny Carlsberg Gliptotek, il banchiere americano J. P. Morgan (scherzosamente chiamato nei diari ‘Sua Maestà il Dollaro’).
Con due collezionisti ebbe però un rapporto speciale. Il primo è il senatore Giovanni Barracco, di cui divenne il braccio destro e poi il successore nella direzione del suo museo; il secondo è ancora più celebre: Sigmund Freud. Con quest’ultimo allacciò negli anni dell’esilio a Vienna una relazione significativa (non a caso la mostra è sponsorizzata anche dalla Società degli Psicoanalisti Italiani). Avevano in comune radici, interessi (Freud diceva di aver letto più libri di archeologia che di psicoanalisi) e amicizie (Emanuel Löwy, archeologo anch’egli di origini ebraiche). Nel 1917 Pollak catalogò i pezzi antichi che Freud aveva nel suo appartamento viennese (oggi sono custoditi nel Freud Museum di Londra, che ne ha prestati alcuni per questa mostra), ma discussero anche del libro che Freud aveva scritto sul Mosè di Michelangelo e finanche dei fondamenti della teoria psicoanalitica freudiana, che come si sa fa largo spazio al paradigma archeologico. È la prova che Freud aveva individuato in lui un interlocutore alla sua altezza.
Rientrato a Roma alla fine della guerra, Pollak riprese la sua attività di erudito e prestigioso mercante d’arte. Negli anni trenta, tuttavia, il vento dell’antisemitismo prese a spirare con forza. Nel 1935 il nuovo direttore tedesco gli vietò la frequentazione della Biblioteca Hertziana (per ironia fondata dalla mecenate ebrea Henriette Hertz) e anche gli amici romani presero progressivamente le distanze, specie dopo il ’38. Temendo il peggio, cominciò a vendere le sue collezioni. Dopo la sua morte la cognata, unica superstite della famiglia, farà dono del rimanente al Comune di Roma (oggi i pezzi sono sparsi fra Palazzo Braschi, i Musei Capitolini e, appunto, il Museo Barracco).
Il legame con l’ebraismo di Pollak, ancorché non ostentato, fu sempre forte. Rifiutò di convertirsi per convenienza dicendo che voleva «portare su di sé il destino del suo popolo»; mantenne rapporti con la sua famiglia di origine (è possibile che fosse imparentato per via materna con il famoso rabbino di Praga Juda Loew, quello della leggenda del Golem), con la comunità israelitica di Roma, ed ebbe simpatia per il movimento sionista. Si interessò professionalmente anche di judaica. Il pezzo forte della sua collezione era una haggadà (codice contenente la cosiddetta Legge Orale ebraica) splendidamente miniata in Spagna nel XIV secolo, che dopo vari passaggi di mano è finita alla biblioteca del Jewish Theological Seminary di New York.
Pollak appartenne al mondo di intellettuali cosmopoliti che fiorì durante la belle époque e declinò fatalmente nel periodo tra le due guerre. Attraverso la sua vicenda la mostra ricostruisce efficacemente quel contesto e la brusca disillusione di quanti come lui avevano creduto che la cultura potesse superare il pregiudizio razziale. Come scrive il rabbino Di Segni nella prefazione al catalogo, la sua è «una delle purtroppo numerosissime tessere del mosaico glorioso e spaventoso della storia ebraica del Novecento».