Le ragioni che fanno di Steve Erickson probabilmente il più sottovalutato dei grandi scrittori americani contemporanei sembrerebbero stare nella sua scrittura in grado di destabilizzare ogni aspettativa facendo collidere generi spesso antitetici come l’ucronia e il romanzo storico, la commedia nera e il thriller distopico, la fiaba e la detective story: una scrittura frammentata, visionaria, ipnotica.

A settant’anni compiuti e con dodici libri alle spalle (due raccolte di saggi e dieci romanzi, uno dei quali, Zeroville, è stato adattato per il cinema da James Franco nel 2019) Steve Erickson resta a tutt’oggi un oggetto misterioso, elogiato da una ristretta cerchia di lettori forti – Thomas Pynchon e Larry McCaffery su tutti – essenzialmente sconosciuto al grande pubblico. Si è detto di lui che la sua è «fantascienza senza scienza», ma nemmeno presso i cultori del genere Erickson ha mai riscosso particolare successo, nonostante i suoi primi romanzi siano usciti per la Poseidon Press, casa editrice statunitense che vanta nel suo catalogo autori come William Gibson e Bruce Sterling.

Anche pensarlo come esponente dell’Avant-Pop – il movimento artistico che negli anni Novanta si appropriò, reinventandoli, di materiali provenienti dai media e dalla cultura popolare, conduce in ultima analisi a un vicolo cieco, visti i risultati eterogenei raggiunti dal gruppo, oggi fagocitato dal medesimo «mostro» postmoderno che l’aveva generato. Lo stesso Erickson, messo alle strette, ha parlato della propria scrittura solo attraverso negazioni: «Non è fantasy, non è surrealismo, non è realismo magico, non è mainstream e non è avanguardia, non è convenzionale e non è necessariamente hip».

Un genere a sé
Il suo stile – caleidoscopico, visionario, surreale, per certi versi iperreale – costituisce un genere a sé: capitoli brevi e incisivi, repentini cambiamenti di prospettiva, narratori multipli, elementi fantastici che irrompono nella narrazione disgregando i confini tra diversi piani dell’esistenza e generando una costante esitazione diegetica che rende impossibile distinguere fra realtà e allucinazione, sogno e ricordo, immaginazione e psicosi. Le motivazioni, il più delle volte oscure, dei personaggi che transitano da un mondo all’altro rimandano ai processi irrazionali del subconscio e sembrano alimentate da terribili colpe rimosse, ma al tempo stesso si fanno metafora dell’assurdità dell’esistenza contemporanea.
A due anni dalla pubblicazione di Shadowbahn, Il Saggiatore propone finalmente il terzo romanzo di Erickson, I giri dell’orologio nero (traduzione di Michele Piumini, pp. 416, € 25,00), uscito negli Stati Uniti nel 1989 e inspiegabilmente restato tanto tempo inedito in Italia. Alla vigilia del crollo del Muro di Berlino l’autore si allontana per la prima volta dalla California e dalla sua Los Angeles, la città dove è nato e dove ha ambientato gran parte delle opere, per riflettere da una prospettiva globale sul secolo appena trascorso – il «secolo breve» di Hitler e degli orrori dell’Olocausto, ma anche quello «in cui un altro tedesco, un ometto con i capelli bianchi arruffati, (eliminava) per iscritto ogni Assoluto con la sua nuova poesia sfrenata; in cui l’orologio nero del secolo veniva privato di lancette e numeri».

Il Novecento di Erickson ruota intorno alla contrapposizione tra la terribile precisione della macchina da sterminio nazista e la teoria della relatività ristretta, che deforma l’orologio della storia: non più il «dio sinistro, spaventoso e impassibile» cantato da Baudelaire, bensì una molteplicità di quadranti liquefatti che segnano tutti una diversa ora esatta. Erickson estende questa metafora alle estreme conseguenze della finzione, immaginando un Novecento alternativo in grado di «comunicare» con il nostro tempo attraverso i rapporti sessuali dei due protagonisti, l’americano Banning Jainlight – scrittore di romanzi pornografici che attirano l’interesse delle alte sfere naziste – e la donna di cui è innamorato, la ballerina Dania.

L’incipit immette subito il lettore in uno spaziotempo straniante privo di ogni coordinata: «C’era sempre un momento, tra il faro sulla riva e Davenhall Island, in cui non si vedevano né l’uno né l’altra. Quel momento non conteneva altro che la barca nella nebbia sull’acqua». Marc, il giovane barcaiolo che traghetta i turisti tra l’isola e la terraferma, ha deciso di non mettere più piede sull’isola dove è nato e dove abita ancora la madre Dania; quest’uomo-fantasma dal cranio canuto – l’«unico figlio bianco dell’unica donna bianca» in un villaggio popolato esclusivamente da cinesi – sembra incatenato a un limbo atemporale, condannato a fare la spola tra due mondi a lui altrettanto estranei, come se provenisse «da un altro tempo, rubato all’orologio di un altro luogo».

Vienna 1938, alla finestra
Quando un giorno, ormai adulto, si avventura finalmente sull’isola alla ricerca di una misteriosa ragazza dal vestito azzurro, scopre il mistero legato alle proprie origini, risalenti al «momento ribelle e forse non splendido che ha tagliato in due il secolo»: un pomeriggio nella Vienna del 1938, mentre le SS picchiano un vecchio ebreo in strada, Banning vede una donna sconosciuta, Dania, affacciata a una finestra e decide di eleggerla a eroina dei propri romanzi pornografici.

L’incrocio dei loro sguardi crea una biforcazione nel «fiume del Novecento», che altera il corso della storia, inaugurando per Banning una linea temporale alternativa in cui Hitler, distratto dalla lettura delle avventure a sfondo sessuale di Dania, revoca l’Operazione Barbarossa e invade la Gran Bretagna, protraendo così la guerra fino agli anni Settanta.
Erickson decostruisce il mito di Hitler con ironia e intelligenza, presentando il dittatore capace di incutere un sacro terrore nei suoi sottoposti come un pervertito impotente e volubile, tormentato dal ricordo del sentimento morboso provato verso la nipote Geli Raubel, morta in circostanze misteriose nel 1931 (evento storico riportato nella Storia del Terzo Reich di William L. Shirer e citato in epigrafe al romanzo).

Nel descrivere Hitler come un fanatico consumatore di pornografia americana a buon mercato, Erickson capovolge il cliché che ha reso il nazismo parte integrante dell’immaginario erotico statunitense. Tra i tanti generi che I giri dell’orologio nero mira a sovvertire, infatti, c’è il filone detto «nazisploitation», o «nazi-porno», che prese piede verso la fine degli anni Sessanta e spettacolizzò le efferatezze, le torture e le perversioni sessuali della Germania nazista a mero scopo di intrattenimento. Forte della sua raggiunta maturità narrativa, Erickson trascende i limiti di questo sottogenere, ampliandone la portata sociopolitica e ironizzando, attraverso il personaggio di Banning, sul fatto che persino la narrativa più commerciale, come quella pornografica, possa essere in grado di cambiare il corso della storia.

Come lancette impazzite di un orologio fuori sesto, nel corso del romanzo i personaggi compiono un giro completo del globo lungo un secolo, rincorrendosi e sovrapponendosi solo per brevissimi istanti: dagli Stati Uniti Banning fugge in Europa alla fine degli anni Trenta per sottrarsi alla cattura dopo un brutale delitto, ma finirà per ritrovarsi prigioniero dei nazisti a Venezia; il futuro padre di Dania è costretto ad abbandonare San Pietroburgo all’indomani della Rivoluzione e si rifugia in Sudan, dove genererà una figlia e poi emigrerà con lei a Vienna; nel 1970 Banning fa ritorno negli Stati Uniti risalendo il Sudamerica e arrivando infine all’isola di Davenhall.

Il romanzo si chiude sul Mare Artico, ma nel 1901: fedele fino in fondo all’idea dello spaziotempo einsteiniano, l’elegante meccanismo narrativo traccia una spirale che, nel tentativo di allontanarsi dal cuore nero del Novecento, esce dal secolo a un’estremità per rientrarvi dall’altra. Se è vero, come ha scritto lo storico Franco Venturi, che il XX secolo «è soltanto il tentativo sempre ripetuto di capirlo», l’ucronia di Erickson sembra suggerire che proprio tra le invenzioni della fiction potrebbero nascondersi le più elusive verità storiche.