Nel 1860 lo storico svizzero Jacob Burckhardt pubblicava La civiltà del Rinascimento in Italia; il termine «Rinascimento» era nuovo per il tempo, ma non era una sua invenzione: lo si deve invece al francese Jules Michelet, che l’aveva coniato una quindicina d’anni prima. Tuttavia è con Burckhardt che questa termine, insieme alla periodizzazione implicata, trova la sua fama, nonché un modello interpretativo della nascita della modernità, contrapposta ai secoli predenti: quelli medievali.
Secondo Burckhardt, è nel Rinascimento che si gettavano le basi dello sviluppo dello stato, dell’individuo contrapposto al comunitarismo medievale, del libero pensiero; il tutto alla luce di un rinnovato rapporto con il mondo classico. La civiltà del Rinascimento in Italia, pur essendo un’opera innovativa, riprendeva una lunga polemica antimedievale che si può dire nata con il Petrarca, nutrita dalledispute della Riforma contro l’oscurantismo romano, culminata nell’ironia di Voltaire sull’età oscura. Quella che Burckhardt interpretava come una rivoluzione operata dal Rinascimento, in realtà aveva le sue radici in un’epoca più lontana, quel XII secolo che aveva visto l’avvio di sistematiche traduzioni in latino e nelle lingue vernacolari d’Europa dei trattati arabi ed ebraici che riportavano sì originali greci, ma che allo stesso tempo veicolavano conoscenze ben più vaste: persiane, indiane, cinesi. Un tema che già negli anni Venti del Novecento un medievista statunitense, Charles Haskins, aveva sottolineato nel suo Il Rinascimento del XII secolo.
In tempi più recenti, la coscienza dell’impossibilità di mantenere in vita l’interpretazione burckhardtiana ha fatto sì che lo stesso termine «Rinascimento» venisse abbandonato in favore di un più neutro «prima età moderna». Sorprende quindi l’uscita del libro di Stephen Greenblatt, Il manoscritto. Come la riscoperta di un libro perduto cambiò la storia europea (Rizzoli, pp. 368, euro 22), americano, critico letterario della corrente del New Historicism, noto studioso di Shakespeare, ma che in Italia conosciamo anche per il bel Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo (Il Mulino). Il manoscritto racconta la storia della riscoperta del De rerum natura, opera composto nel I sec. a.C. da Tito Lucrezio Caro; autore del fortunoso ritrovamento fu l’umanista e scriptor pontificio Poggio Bracciolini, che ne ritrovò copia manoscritta nell’abbazia di Fulda, in Germania. Il testo di Lucrezio, com’è noto, si fa portavoce in forma poetica delle teorie epicuree sulla realtà della natura e il ruolo dell’individuo in un universo atomistico, materialistico e meccanicistico; di fronte al quale viene formulato il dibattito tra la ratio, ossia la ricerca della verità, e la religio, l’oscurantismo del dogma; il prevalere di un atteggiamento improntato alla ratio farà sì che l’individuo possa liberarsi dalla paura della morte, del dolore e degli dei. Poggio Bracciolini viveva in un momento non facile per la storia della Chiesa: si era infatti al termine dello scisma che aveva lacerato il papato e la Cristianità a partire dal 1378, ma ancora non era chiaro se avrebbe prevalso una visione conciliarista della Chiesa, oppure una restaurazione della monarchia pontificia; Poggio, vista la sua posizione lavorativa, era ampiamente coinvolto da questo dibattito.
Greenblatt contestualizza con vivacità ogni momento del suo racconto: dalla sua personale scoperta di Lucrezio, a quella di Poggio, al dibattito che il De rerum natura portava con sé. Il risultato è che Il manoscritto si può leggere come un romanzo. Tuttavia, i dubbi che suscita non sono pochi. Intanto, che il testo lucreziano abbia avuto questo effetto dirompente e determinante nella cultura dei secoli successivi è dubbio; così com’è dubbio, in generale, che un libro possa «cambiare la storia europea», come recita il sottotitolo. Che poi nell’originale è differente, ma ancor più indicativo: The Swerve (lo scarto, la deviazione). How the Renaissance Began: «come ebbe inizio il Rinascimento», che è una voluta adesione al modello interpretativo burckhardtiano e all’idea di una profonda discontinuità del Quattrocento rispetto al periodo precedente. Per giustificare lo «scarto», Greenblatt deve per forza dare una visione senza mezzi toni del Medioevo: dai colti proprietari romani ridotti in catene da barbari analfabeti, ai monaci che passano il tempo a flagellarsi, all’orrore medievale per il corpo e la sessualità. Si tratta di cliché che decenni di medievistica hanno ormai ribaltato; per esempio, l’incontro tra romani e germani è stato molto più graduale e sincretistico di come lo si pensava un tempo e la riduzione in schiavitù dei latini fu al più sporadica; difficile poi conciliare l’infinità di satire contemporanee sui monaci gaudenti, che mangiano e bevono meglio degli altri (a loro dobbiamo il formaggio e la birra, oltre ai manoscritti), con l’idea di un mondo monastico solo dedito ad aberranti pratiche masochistiche: Greenblatt le trae in larga parte da fonti agiografiche nelle quali lo scopo è far emergere la santità della persona, non descriverne la vita in termini realistici; per non parlare dei molti studi (come quelli di John Boswell) che hanno dettagliato la crescente insofferenza per l’omosessualità nel tardo medioevo (cioè agli albori del Rinascimento), non nell’oscuro medioevo.
Tuttavia, non è solo l’idea dello scarto rispetto al passato a destare perplessità, perché la descrizione di una modernità del pensiero e della scienza che si scontra sì con i lacci posti dalla Chiesa e dalle costrizioni religiose, ma che alla lunga esce trionfante come la ratio sulla religio, ecco questa è forse l’interpretazione che suona più stridente. Alla fine del Cinquecento il grande giurista e procuratore del re di Francia Jean Bodin era convinto della realtà della stregoneria perché gli autori classici, che le genti del Rinascimento tanto stimavano, ne parlavano ampiamente. È una delle conseguenze del revival dell’antico al quale spesso non si pensa, ma che ebbe in questo campo un effetto pervasivo. Quasi un secolo più tardi il filosofo della natura Joseph Glanvill, che certo conosceva bene Lucrezio e l’atomismo, era strenuo sostenitore della neonata Royal Society, scriveva un The Vanity of Dogmatizing nel quale criticava l’eccesso dello scolasticismo e dell’intolleranza religiosa in nome del metodo scientifico e della libertà di pensiero: e sulla base di tutto questo componeva anche un trattato sui poteri stregonici, il Saducismus triumphatus, che avrebbe influenzato i processi americani di Salem. La modernità, insomma, è costellata di fenomeni che a Burckhardt sarebbe piaciuto classificare come «medievali»; e nel suo secolo, quell’Ottocento in cui le «magnifiche sorti e progressive» sembravano ancora una prospettiva certa, è possibile capirlo. Alla luce di quello che è venuto dopo ci sembra opportuno adottare una visione, anche storiografica, meno compiaciuta e sicura di sé.