Chiedimi tutto quello vuoi, se poi mi fai qualche domanda troppo «scomoda» passiamo alla prossima senza problemi», dice con tono scherzoso la primogenita di Lucio Fulci, venerato «terrorista dei generi» e «poeta» di immaginari cinematografici ferali, scomparso il 13 marzo 1996. Fin da adolescente, Antonella ha alternato i panni di assistente («già a 16 anni lavoravo sul set di La pretora») a quelli di confidente del padre (preziosi i suoi racconti e quelli della sorella Camilla – deceduta l’anno scorso – in Fulci for Fake di Simone Scafidi). E sì, è stata anche fonte di ispirazione: «Il simbolo legato a …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà nasce dal disegno di un mio tatuaggio». Tra tuffi in memorie paterne e considerazioni sul cinema del presente – con qualche notizia prossima confortante, visto il periodo -, ci ha portati nel suo mondo.

Attraverso pubblicazioni, testimonianze, documentari, omaggi, conosciamo numerosi aspetti legati alla figura di tuo padre, ma pochi sulla tua. Chi è Antonella Fulci?
Fin da piccola sono stata educata, per non dire obbligata, da papà ad andare al cinema: «Stasera quando ci vediamo ti interrogo su quello che hai visto», mi diceva. Durante la settimana, finita la scuola, frequentavo il cinema della parrocchia vicino casa. Vedevo titoli che da altre parti mi sarebbero stati vietati per via dell’età, come Un uomo da marciapiede: evidentemente il parroco era di larghe vedute (ride, nda). Da adulta ho fatto la redattrice per X: Eros in video, prima rivista specializzata e patinatissima che recensiva le Vhs porno in uscita. Poi, verso fine anni 90, ben prima degli attuali blog, ho aperto un ormai «vetusto» sito personale, si chiamava CineXtreme. Raccoglievo materiali sul cinema di genere, avevo creato un sezione dedicata a Divine, una ai cineromanzi… Un giorno, navigando in rete, mi misi a guardare un video: The Blair Witch Project. Tutto ciò ben prima che il film uscisse in sala e che venisse definito mockumentary. Mi appassionai così tanto a questa visione che inizia a scrivere, il risultato fu un libro: La vera storia della strega di Blair. The Blair Witch Project (Fanucci Editore, nda). Inoltre, ho scoperto che viene consultato da studenti universitari come fonte bibliografica per le tesi di laurea. Mai avrei pensato una cosa simile! (ride, nda). È stato un lavoro nato dal cuore, senza secondi fini commerciali. Oggi, dopo che per tanto tempo sono dovuta star ferma per motivi di salute, mi hanno proposto di curare la traduzione inglese di Le lune nere, raccolta di racconti scritti da papà, uscita con scarsa promozione poco prima che morisse, e ora edita da Il saggiatore. Dopo alcune titubanze, ho accettato, soprattutto per rispetto verso di lui. Verrà pubblicata per Dark Gem Press, casa editrice americana. Sono fiduciosa.

In queste settimane sono state annunciate le nuove versioni di «The Others» e, per la terza volta, di «La notte dei morti viventi». Caso curioso che ha diviso è stato il «Suspiria» di Guadagnino, ora alle prese con un altro rifacimento in cantiere, quello di «Scarface». Come ti poni sulle questioni legate ai remake?
Guadagnino ha fatto un ottimo lavoro perché è riuscito a ricreare una storia diversa rispetto a quella diretta da Dario Argento. Non demonizzo la questione remake, esistono tanti esempi validi, penso a Lolita di Adrian Lyne, dove non devi ricercare il paragone con Kubrick ma soffermarti a leggere Nabokov; stessa cosa per Psycho di Gus Van Sant. Sicuramente la domanda sarà aumentata anche perché, Covid-19 a parte, in questo piattume generale di oggi la gente va meno al cinema e punta alle piattaforme streaming.

Più di un anno fa Rob Zombie aveva annunciato il remake di «…e tu vivrai nel terrore! L’aldilà». Nessun altro ha pensato a un rifacimento di un film di tuo padre?
Ma magari! Quello di Rob Zombie era un pesce d’aprile (ride, nda). Comunque, se lo facesse, sarebbe meraviglioso. Porte aperte! Di remake se ne dovevano fare due, uno di Sette note in nero e uno di Paura nella città dei morti viventi. Il primo doveva essere realizzato inizialmente dalla Ghost House Pictures di Sam Raimi, poi passò in mano alla Columbia ma, per questioni legate a mia sorella, alla fine non se ne fece nulla. Il secondo doveva essere annunciato, ma la pandemia ha messo in stallo la lavorazione.

Sei una «tarantiniana»?
Lo adoro! Nel 1992, ben prima della consacrazione con Pulp Fiction, arrivò a mio padre una Vhs di Le iene. Il film gli piacque tanto, ma non riusciva a capire chi fosse Tarantino, a dargli letteralmente un volto. Due o tre anni dopo, al MystFest di Cattolica, finalmente si incontrarono. C’era anche Roger Avary, lì per Killing Zoe, e si abbracciarono. Io, invece, l’ho conosciuto di persona anni fa, delizioso, un «ragazzotto», come lo chiamava papà. Ha inventato un nuovo modo di fare cinema, e spero che il riconoscimento di cui gode oggi venga sempre più amplificato. Nei suoi occhi leggi una bontà autentica, vera, ricca di passione.

Ti andrebbe di associare un commento ai titoli realizzati da tuo padre?
Vai.

«Zombi 2».
Divertente. Se vuoi farti una serata con amici pizza e birra è il film perfetto. Ed è anche profetico, in un certo senso, se pensi all’espansione fuori controllo del contagio.

«Conquest».
Un film piccolo, ma fu una bella esperienza. Giravamo in Sardegna con un gran vento. Il povero Andrea Occhipinti, vestito da elfo, patì un gran freddo (ride, nda).

«La pretora».
È il punto di rottura della commedia scollacciata. Durante la lavorazione ho il ricordo di una Edwige Fenech adorabile.

«Murderock – Uccide a passo di danza».
Non mi fa né caldo né freddo. Pur avendo avuto a disposizione Keith Emerson, uno dei più grandi compositori della storia contemporanea, le musiche erano già stantie quando il film uscì.

«Il cav. Costante Nicosia demoniaco ovvero Dracula in Brianza».
Variopinto. Il mio preferito assieme a Beatrice Cenci, ancora attualissimo per tutto il discorso legato all’influenza della stampa.

Pandemia a parte, la tua ultima apparizione pubblica risale a più di un anno fa. Presenziasti alla Mostra del cinema di Venezia per «Fulci for Fake», docufiction di Simone Scafidi.
Non frequento l’ambiente del cinema, preferisco stare defilata. Mi convinsero all’ultimo a partecipare alla proiezione ed è stato bellissimo. Arrivammo al Lido accompagnati da un gruppetto di cosplayer truccati da zombi, voluti da Michele Romagnoli, grande amico di papà. E la cosa fu molto apprezzata. Poco prima di entrare in sala, gli zombi cercarono scherzosamente di azzannare Chiara Ferragni (ride, nda) che in quel momento passava da lì. I paparazzi fecero delle foto e quando uscirono sulle riviste di gossip, pensammo che il film ce l’aveva fatta. È stata una ventata di allegria, si era creato un clima giocoso, come papà avrebbe voluto, perché lui era così. Ringrazio ancora Simone e Giada Mazzoleni che, con tanto coraggio, ha prodotto il film.

Recentemente, su Il Fatto Quotidiano, Antonietta De Lillo ha dichiarato che «il cinema è in crisi da 30 anni» e che «le proteste di oggi sono demagogiche».
Concordo con lei. Con tutto il rispetto per gli esercenti, ma la crisi di oggi è conseguenza di un’altra iniziata tanto tempo fa. Ad esempio, il regista di cinema di genere poteva girare se già aveva contatti con distribuzioni estere e quindi con la garanzia di poter esportare il film. In Italia si beccava due lire. Fare il regista è un lavoro, ovviamente, ma oggi se non hai una buona copertura alle spalle diventa molto complicato. In più c’è pigrizia e standardizzazione nelle idee, campanilismo nelle storie. Avverto questa cosa anche nelle ambientazioni: papà girava spesso all’estero, con una predilezione verso gli Stati Uniti. Quando l’ha fatto in Italia, ha scelto sempre luoghi particolari, come per Non si sevizia un paperino o le splendide tenute in Toscana di Sette note in nero. Per lui le location contavano molto.

È finita la poesia del macabro?
Tutti possono essere capaci nell’omaggiare Fulci o Argento, manca però lo scatto per andare al di là di questo. Nelle sceneggiature di un tempo, per quanto riguarda l’horror, si andava dritto al sodo, senza fronzoli. Oggi, invece, l’attesa di un qualcosa si fa sempre estenuante.

Visto che è stata citata De Lillo, non posso non chiederti lumi su «Fulci Talks».
Nel 1993 Antonietta e Marcello Garofalo, in due giorni, filmarono circa 12 ore di intervista fatta a papà, da cui poi nacque il documentario La notte americana del dottor Fulci (la durata è di 30’, nda). Il materiale avanzato, e quindi inedito, vedrà la luce grazie a Fulci Talks al prossimo Noir in Festival. Comparirà un Fulci a briglia sciolta, sparlerà pure di qualcuno… Speriamo bene: essendo rimasta l’unica della famiglia, ne dovrò rispondere io (ride, nda).