Si è spenta giovedì a Milano (dove era nata nel 1936) Lucilla Morlacchi, una delle grandi signore del teatro italiano. Aveva 78 anni, e fino all’estate scorsa era ancora sulla scena, al Sacro Monte di Varallo. Ma il suo volto è sempre rimasto quello di ragazza, quello che con Luchino Visconti la portò a essere nel Testori censurato de L’Arialda, e subito dopo nel ruolo di Concetta nel Gattopardo. Grande presenza in scena e sullo schermo (poca tv, qualche commedia e qualche sceneggiato anni ’60) l’attrice, con la sua ingenuità pensosa ha dato corso alla storia del teatro italiano dell’ultimo quarto del secolo scorso.

Aveva lavorato per molti anni con lo stabile di Genova, e con quel teatro fu Edvige nell’ Anatra selvatica di Ibsen, primo impegno pubblico di Luca Ronconi a Prato, nel 1977: davanti allo stupore partecipe di lei, scorrevano le «fotografie» scenografiche di quello storico allestimento. E, altra indimenticabile presenza, era Kattrin, la figlia muta di Madre Courage di Brecht, nella capitale edizione che vedeva Lina Volonghi protagonista (e con la Volonghi e Calindri aveva del resto debuttato giovanissima)

Ebbe un sodalizio molto stretto e fecondo con Franco Parenti, partecipò alla fondazione del Pierlombardo, e per lei scrisse dei testi Giovanni Testori, nel momento in cui nacque la Trilogia degli Scarrozzanti. La monaca di Monza e I promessi sposi alla prova restano fondamentalmente legati alla sua interpretazione. Curiosamente, era tornata di recente in tournée ancora in abiti monacali, lucida e cattivissima, assieme a Stefano Accorsi nel Dubbio sacerdotalpeccatorio dell’americano John Shanley.

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Ma l’ultimo giro trionfale, con moltissime repliche, era stato in un testo maledetto di Jean Genet, Le serve. Assieme a Paola Mannoni era due creature strepitose: folli quanto lucide, affettuose quanto assassine; la regia di Massimo Castri aveva costruito sui loro volti e sui loro movimenti una partitura meravigliosa tra il tragico e il grottesco, tra il calcolo più subdolo e lo sfrenato animalesco.

Come è chiaro da questi pochi ricordi (rispetto a una carriera tanto lunga e densa) Lucilla Morlacchi lascia due immagini folgoranti e storiche nella memoria teatrale, in entrambe le occasioni diretta da Elio De Capitani.
Nel 1990, rivelò sui Ruderi di Gibellina la sconosciuta forza schilleriana de La sposa di Messina, rispecchiandosi nei cavalli dentro la montagna di sale, che in quella occasione per la prima volta ha usato Mimmo Paladino. Cinque anni dopo, all’Arsenale di Venezia, un altro battesimo infuocato: era la madre roca e piangente de l Turcs tal Friul, l’opera giovanile che Pier Paolo Pasolini aveva scritto nell’arcaica lingua della propria madre. Una epifania monstre, una prova d’attrice che la rende per chi la vide, una Pietà michelangiolesca.