Se esistesse una classifica degli apparati più potenti del mondo, nessun dubbio che la Banca dei Regolamenti Internazionali sarebbe ai primi posti. Possente istituzione con struttura di una SpA creata negli anni Trenta, posseduta dalle più potenti Banche Centrali del pianeta (fra cui la Cina) e geometrico punto di incontro delle più potenti istituzioni finanziarie internazionali, con sede a Basilea, pare l’ideale oggetto delle paranoie cospirazioniste più accese.
Sin dalle sue origini l’istituto propone una relazione annuale in cui, oltre ad un consuntivo delle proprie attività ed un resoconto finanziario fornisce una sua lettura della congiuntura economico-finanziaria attuale, con una vasta congerie di dati, grafici, analisi. Fedele alla sua missione di coordinamento delle banche centrali, elabora proposte indirizzate ai decisori politici e ai media. Tale documento presente diversi motivi di interesse: non solo si tratta di un documento di alto livello di analisi su materie dense di tecnicalità, ma pur essendo emanazione di uno dei sacrari più rigidamente devoti al finanzcapitalismo attuale si permette di ignorare le retoriche volte ad indurre la famosa fiducia, patrimonio di politici e responsabili pubblici, per dire fuori dai denti verità abbastanza sgradevoli. Ma non c’è bisogno di adulare il Potere se si è il Potere stesso.
Si ammette schiettamente che se si può parlare di ripresa è troppo debole per essere davvero ottimisti. La crisi non è stata affatto superata, ma viviamo un momento di respiro grazie allo stimolo delle politiche monetarie espansive, senza progressi nella produttività delle imprese, con aumento del debito, sia pubblico che privato, con investimenti fiacchi. Ed il motivo è che le cause profonde della crisi rimontano a tendenze vecchie di anni se non decenni; per coglierle occorre un orizzonte di analisi di più lungo periodo di quella dei cicli economici prevalenti nel mainstream delle dottrine economiche.
Occorre tenere sotto controllo i cicli di espansione (boom) e di contrazione successiva (bust) per stabilizzare il sistema. I paesi che hanno visto il fulcro della crisi nei settori finanziari (USA, UK, Spagna, Irlanda) hanno visto una vera e propria recessione patrimoniale (definita come “una contrazione del prodotto associata a una crisi finanziaria dopo un boom finanziario”, p. 51 n.1) e sono meno sensibili alle tradizionali politiche della domanda.
Bisogna convincesi che la crescita non è più sostenibile con nuovi debiti, perché sia sostenibile è necessario “contenere il potere distruttivo del ciclo finanziario” (p. 23). Ma con che mezzi, visto che secondo analisi di ampio respiro (si veda per esempio Bertorello-Corradi 2011) l’onda lunga dell’ipertrofia finanziaria trova nella stessa economia industriale/reale le proprie radici? Qua le soluzioni non peccano di sconvolgente originalità. Un maggior rigore tanto nei conti pubblici che nei criteri di capitalizzazione per il settore bancario – nessuno si provi a chiamarsi fuori dalle “riforme strutturali”! – e aumento di produttività per sostenere la crescita (opzione non proprio sconosciuta agli uffici stampa delle associazioni datoriali…).
Diagnosi ammirevolmente schietta, ma prognosi poco approfondita e terapie molto, molto dubbie insomma. Una lettura di questo tipo di analisi, maturata nei sacrari del mainstream economico, deve tener presente che per quanto provocatori e critici siano i suoi assunti, non potranno mai arrivare alla destituzione del proprio medesimo fondamento, l’ordine neoliberista, senza arrivare all’autodissoluzione di sé. Tanto che le alternative più stigmatizzate consistono in una combinazione di inflazione, repressione finanziaria e autarchia. Che non suonano poi tanto male.