I numeri conclusivi delle Colline Torinesi danno soddisfazione a Isabella Lagattolla e Sergio Ariotti, direttori e ideatori di uno dei festival più curati d’Italia. Una lucida passione adoperata per dialogare con artisti la cui ricerca ha mutato la scena degli ultimi trent’anni e sviluppare al contempo l’accoglienza di giovani sperimentatori. Si costruisce così un organismo complesso e agitato da forme e linguaggi capaci di sollecitare riflessioni alte sul nostro vivere quotidiano, senza le banalizzazioni di una comunicazione immiserita dalla velocità e dal conseguente mancato approfondimento. Il programma si è aperto con la Socìetas Raffaello Sanzio, quasi un prologo ai venti giorni che sono seguiti, affidato all’ironica cascata di interrogativi posti da Claudia Castellucci e Chiara Guidi con Il regno profondo. Perché sei qui?. «Fluctus, declinazioni del viaggio» è il sottotitolo di questa 24 esima edizione – acuto e diverte, nel libretto del festival, è il gioco di ritorni sul numero 24, firmato da Ariotti!

E IL VIAGGIO, che resta la condizione umana, in questo nostro tempo, caricata ogni giorno delle più dolorose accezioni, è anche quello imposto ai sette spettatori saliti sul furgoncino del Teatro dei Borgia per l’incontro con Medea per strada. Qui Elena Cotugno – autrice con Fabrizio Sinisi – si traveste da prostituta-schiava romena per rinnovare l’antico mito greco. La tragedia di una giovane donna ingannata e sfruttata. Mentre si attraversa la periferia torinese, una brava Cotugno entra nel corpo e nella mente della novella Medea, in una solitudine agghiacciante fino all’annientamento totale.
Degli Illegal helpers si occupa il progetto di Paola Rota, Simonetta Solder, Teho Teardo, un testo dell’italo-tedesca Maxi Obexer sui disobbedienti – la capitana Rackete, per esempio – che aiutano i migranti, andando ad abitare il razionalismo industriale della Fondazione Merz, dove Petrit Halilaj – artista kosovaro scelto quest’anno per segnare con il suo tratto l’immagine del festival – ha vinto il Mario Merz Prize. I catalani di El conde di Torrefiel con La plaza ricoprono l’intero palcoscenico dell’Astra con fiori e moccoli, quasi fosse il cimitero della nostra civiltà. Non si proferisce parola, anche quando entrano i performer con le identità annullate da un velo. «Catastrofistiche» visioni della realtà che non riusciamo a cambiare.

E CHIUDONO i Motus alla Lavanderia a vapore, nell’ex manicomio di Collegno, con 15 scatenati allievi de La Manufacture, l’Haute école des arts de la scéne di Losanna, dove Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande hanno montato Rip it up and start again, un viaggio nel post punk dei primi anni 80, quando la ribellione al neo liberismo produceva una scena musicale di grande rottura. Ognuno dei 15 scava nella vita di un protagonista, da Lydia Lunch, a Bithday Party e Nick Cave, per una ricostruzione preziosa di quella storia. E sorprende la loro adesione al progetto che per i Motus significa generosa condivisione della propria formazione. Una provocazione dalla firma inconfondibile, anche stavolta di grande carica politica, oggi più che mai necessaria.