Da sempre la scena della follia in Lucia di Lammermoor (1835) di Gaetano Donizetti – qui alle prese con un libretto di Salvatore Cammarano che adatta il romanzo gotico di Walter Scott La sposa di Lammermoor (1819) – con la sua scrittura vocale tutta proiettata verso vertici di inaudito virtuosismo, nonostante l’apocrifia della cadenza, è una delle ipostasi più intense e durature della follia del melodramma romantico, e della follia del melodramma in sé; dove tutto, istericamente cantato invece che parlato, tende sistematicamente all’enfasi e all’iperbole. Le sue figure caratteristiche sono l’amplificazione, l’antitesi e l’ossimoro: ogni battuta si propone come un’affermazione totale e coerente, tesa alla messa in scena di un conflitto etico universale, refrattaria a quella che il romantico Alfred De Vigny chiamava l’«insopportabile tiepidezza dei mezzi-caratteri, degli abbozzi di virtù e di vizio, degli amori indecisi, degli odi smorzati».

La struttura affettiva dell’universo melodrammatico è sorretta da una logica binaria che non lascia scampo: mentre si fa carico della rappresentazione di un segno psichico puro, ogni personaggio diviene il polo di un’opposizione assoluta che troverà il polo complementare in un altro personaggio. L’allestimento scaligero dell’opera in scena in questi giorni, con la regia di Mary Zimmerman, è basato su un’idea interessante: «L’ombra inquieta della giovane uccisa da un antenato di Edgardo infesta i dintorni del castello di Ravenswood e attira a sé Lucia, impadronendosi di lei e passando attraverso di lei per impadronirsi anche di Edgardo e trascinare tutti con sé nella tomba. L’ombra […]da Scott passò rapidamente a Donizetti, che cominciò a manifestare i primi sintomi di follia proprio mentre stava lavorando alla Lucia. Attraverso Donizetti è arrivata a Flaubert e alla sua Madame Bovary, la quale, dopo aver visto a teatro la Lucia di Lammermoor, diventa quasi pazza di desiderio per un giovane amante e imbocca una strada simile a quella di Lucia, che la porterà alla rovina». Peccato che, a parte l’apparizione dell’ombra della giovane uccisa all’inizio dell’opera e di quella di Lucia morta alla fine, nulla ci parli di quella follia mortifera se non la suddetta scena della follia, sostanziata non tanto da scelte registiche che, qui come nel resto dell’opera, latitano, ma dal canto spiegato e ipnotico della protagonista, interpretata da una Albina Shagimuratova in stato di grazia.

Il soprano è chiaramente lì solo per cantare la scena della follia, e la canta meravigliosamente sfoderando un registro acuto e sovracuto squillante e morbido, ma annullando la restante drammaturgia dell’opera in un’emissione fioca e stimbrata (il registro medio e quello grave hanno dimenticato di presenziare alla prima) e in un continuo, esasperante movimento di braccia. Movimento ancora più insistito, sgraziato e imbarazzante nel tenore Vittorio Grigolo, che con quello, e con un iscurimento artificioso della voce, crede di compensare un registro centrale mal sostenuto, che lo costringe a passare da sussurri, laddove dovrebbero esserci dei piani, a suoni forti e incontrollati, e un registro acuto opaco e faticoso.

Uguale goffaggine affligge il baritono Massimo Cavalletti, la cui voce brunita spesso si impiglia in acuto schiacciano malamente il suono. Insomma nessun lavoro registico sul corpo, sull’incarnazione degli affetti, qui lasciati solo alle astrazioni del canto. Nella direzione esanime Pier Giorgio Morandi, è reo di avere tagliuzzato malamente lo spartito, e di non avere alcun senso della tenuta d’insieme dei numeri, che, così abbandonati a se stessi, rischiano di sembrare numeri da fiera.