Il bagaglio dell’ospite, la rosa, il contenuto della tazzina versato dalla duchessa, i volumi nelle librerie, i lampi di luce notturna: sono tante le tracce rosso sangue nella regia di Valentino Villa per Luci mie traditrici di Salvatore Sciarrino, opera del 1998 alla sua prima veneziana. Nell’allestimento di Villa al Teatro Malibran (belle le scene di Massimo Checchetto e i costumi di Carlos Tieppo) l’illustrazione della vicenda, che sfocia nell’assassinio della duchessa e del suo amante da parte del duca, è temperata da un costante gioco di straniamenti: di ambienti, perché il moderno appartamento alto borghese è a un tempo dimora della coppia e memoria di uno spazio abbandonato, una vegetazione lussureggiante che invade le stanze, in assonanza con la natura notturna e inquieta aleggiante nella scrittura strumentale di Sciarrino; di angolature, con il ruotare di spazi e luci (di Fabio Barettin ), che alterna regolarità a accelerazioni, anch’esse calibrate con il dilatarsi e rapprendersi spazio-temporale della drammaturgia sciarriana; di presenze, con opprimenti uomini upupa, araldi inquietanti e musi di una fedeltà coniugale che da rito quotidiano si cambia in promessa di morte.

IL NITORE e l’equilibrata scansione della regia esaltano il meccanismo di progressione artatamente ritardata dal duca verso l’atroce finale, nel raffinato e psicotico gioco di sottile crudeltà con la consorte prima perdonata poi uccisa. Un’asciuttezza che consente anche la concentrazione sul magnifico testo, desunto dallo stesso compositore dal secentesco Tradimento dell’onore, oggi attribuito al veneziano Francesco Stramboli e non più a Giacinto Andrea Cicognini. Alla guida degli strumentisti della Fenice Tito Ceccherini ha offerto una lettura plastica e dettagliatissima delle umbratili, mobili alchimie sonore distillate da Sciarrino, senza però ingabbiare le potenzialità dei cantanti nel rapporto fra buca e palcoscenico. Ben assortita la coppia dei Malaspina, Wioletta Hebrowska, duchessa di voce piena e presenza imponente, mentre il duca era interpretato da Otto Katzameier, che sa adattare il suo strumento al pianissimo come al grido, grazie anche all’esperienza maturata in quella difficile parte. Ottimo contraltare al nevrotico duca era il controtenore Carlo Vistoli, che prestava all’Ospite una vocalità rotonda e carnale, pur nel rispetto della rarefatta parola sciarriniana. Alla fine tutte le voci si raccolgono in un coro conclusivo, sorta di madrigale pensato come viatico per il pubblico, dal significato aperto, scritto dal compositore appositamente per le rappresentazioni veneziane. Convinta la reazione positiva del pubblico, con presenze crescenti alle repliche.