Dopo nove ore di acceso dibattito, 108 voti a favore e 25 contrari. Così il parlamento ecuadoriano ha parzialmente rimosso il divieto di estrarre petrolio dal parco nazionale Yasuní ITT (Ishpingo, Tambococha e Tiputini). La riserva amazzonica, ai confini del Perù, custodisce un inestimabile patrimonio ambientale, ma anche riserve di greggio stimate pari a 920 milioni di barili, il 20% delle risorse petrolifere del paese. Nonostante le misure sociali intraprese dal governo di Rafael Correa (rieletto per la terza volta a febbraio con oltre il 56% dei voti), l’Ecuador (il paese più piccolo dell’Opec) ha ancora un 23,7% di povertà. «Se non sfruttiamo nuovi giacimenti la nostra economia potrebbe collassare entro il 2020», ha detto Correa: ribadendo che i 19 milioni di introiti attesi dalle riserve del parco saranno destinati alla lotta alla povertà, a partire dalla regione amazzonica.

Un’ammissione di sconfitta, per l’esecutivo che, nel 2007, aveva lanciato al mondo un’ambiziosa sfida: lasciare nel sottosuolo quei milioni di barili per preservare quell’angolo di paradiso, dichiarato nel 1989 dall’Unesco riserva della biosfera per la sua biodiversità unica al mondo. In cambio, il governo ecuadoriano aveva chiesto alla comunità internazionale una parziale compensazione, corrispondente alla metà del valore di mercato del petrolio per 13 anni: un contributo di 2,6 miliardi di dollari – aveva spiegato Correa all’Onu – da versare in un fondo amministrato dal Programma dell’Onu per lo sviluppo e impiegato dal governo ecuadoriano per sviluppare le energie alternative e progetti eco-sostenibili. Quel tetto non è però stato raggiunto, la raccolta si è fermata a 13,3 milioni di dollari (lo 0,37%) e ad agosto il progetto è stato chiuso.

L’esecutivo ha allora proposto la modifica costituzionale. Il documento approvato consente le trivellazioni solo «nei blocchi 31 e 43», in un’estensione non superiore all’1 per mille dell’area (sui circa 10.000 kmq complessivi) ed esclude una zona considerata intangibile. A effettuare l’estrazione sarà esclusivamente l’impresa pubblica nazionale, la Petroamazonas. L’esecutivo s’impegna a istituire un sistema di «monitoraggio integrale» dell’impatto ambientale, un costante censimento del patrimonio culturale e biologico, e soprattutto a destinare le risorse a un progetto di riqualificazione economico-produttiva.

Molte le contestazioni, dentro e fuori il parlamento. Diverse organizzazioni indigene ritengono insufficiente il livello di consultazioni e la contrattazione sul documento approvato, e parlano di «etnocidio». «Nell’attuale situazione di violenza ambientale che vive il Pianeta, la difesa dei territori e degli ecosistemi, soprattutto di quelli più preziosi e biodiversi è una necessità avvertita tanto dalla comunità scientifica quanto dalla società civile», scrive dall’Italia l’associazione A Sud, che invita a firmare un appello per la difesa del parco.