Mi riprometto, in queste note del «Divano», di tornare via via a riflettere su pittura e fotografia. Una tematica che il lettore ha già avuto occasione di incontrare in questa rubrica. Si tratta, del resto, di un argomento attraente ed assai impegnativo, che non ha cessato di sollevare un vasto e costante interesse critico a far data, si può ben dire, dagli anni del primo affermarsi e rapido diffondersi dell’invenzione di Niepce e Daguerre.

Negli appunti precedenti che hanno, su questo tema, trovato ospitalità nel «Divano», mi son fatto uno scrupolo di rispettare alcune necessarie distinzioni. Infatti, dire «pittura» o dire «fotografia» senza le indispensabili precisazioni, in punto di teoria, che i due termini oggi richiedono sarebbe mantenersi in una genericità e in una vaghezza degne di miglior causa. «Pittura» e «fotografia» sono, nell’uso odierno, ridotte, per lo più, a categorie generiche, a contenitori spesso confusi o a classificatori di modalità eterogenee.

Tento qui, a mo’ d’esempio, una sommaria messa a punto in tema di «fotografia». Ipotizzo di svolgere una riflessione tenendo conto delle fotografie realizzate prima della tecnica digitale e non oltre la macchina polaroid. Dunque immagini fotografiche stampate su supporto cartaceo. Ne vanno escluse, per la precisione, immagini diapositive osservate grazie a un proiettore o un visore. Esse, infatti, risultano illuminate dall’interno e conferiscono pertanto, per questo solo tratto, piuttosto a problematiche d’ordine ‘cinematografico’. Là dove un fotogramma stampato restituisce a noi che lo osserviamo i suoi valori ‘luminosi’ (le gradazioni dal nero al bianco attraverso la scala dei grigi; la gamma cromatica dei chiari e degli scuri; i contrasti delle luci e delle ombre) secondo un registro simile – lo diremmo parallelo – a quello del disegno e della pittura. Ed il supporto cartaceo, poi, uniforma, in quanto tale, la carta fotografica alla carta sulla quale si traccia un disegno, si realizza un acquarello o si imprime una lastra incisa. Ne deriva, sul piano percettivo, una similarità con i ‘manufatti pittorici’, non fosse altro che per i formati dei fogli e per l’elemento tattile comune: tengo in mano una carta e osservo i segni che vi sono tracciati, la figurazione di forme.

A questa stregua, è tutt’altro universo percettivo quello che si accampa con la immagine digitale. Mi limito a richiamare qui due aspetti che lo connotano e che entrambi comportano conseguenze radicalmente diverse. Intendo la illuminazione dall’interno che reca una luce artificiale insita nella ‘fotografia’ digitale che osserviamo nello schermo del computer o nel display dell’I-phone, tanto ad essa consustanziale da emanciparla dalla luce naturale nella quale, tuttavia, noi osserviamo una fotografia stampata su carta. Una luce dall’interno che è la medesima del cinema e della televisione.

Intenzionalmente non tocco la questione dell’immagine in movimento, che però resta, come sto per accennare, latente o, meglio, incombente. Infatti – e vengo così secondo aspetto – il supporto dell’immagine ‘fotografica’ digitale è virtuale: un appoggio provvisorio, che accendi e spegni e che, solo per questo, doti di un effetto di apparizione, un manifestarsi compiuto e integrale dell’immagine tutta intera tale da conferirle una virtù epifanica. Per questo, credo, nella recezione dell’immagine digitale, quando la accendi, nel momento in cui ti appare illuminata di luce propria, avverti insito un elemento che può esser detto di spettacolo o teatrale. Non perché affidato a una qualche disposizione della ‘scena’ (come avveniva, ad esempio, nei tableaux vivants fotografici dell’Ottocento), ma perché assimilabile al sentimento di attesa che prende lo spettatore nel momento dell’apertura del sipario. Attesa, disposizione che coinvolge coordinate temporali.

Una aspettativa, rispetto all’immagine, delusa dalla sua immobilità senza azione drammatica, ferma nella sua fotografica fissità. Questi due aspetti – luce artificiale ed epifania – contrassegnano la ‘fotografia’ digitale. Cartacea, una fotografia pre-digitale abita la luce naturale e partecipa del tempo che si deposita sugli oggetti e li muta.