Non è comune che il recital scelto per inaugurare una stagione cameristica – quella dell’Accademia di Santa Cecilia, nel caso specifico – privilegi, nei contenuti, la dimensione monografica. Più spesso, infatti, si preferisce puntare sulla varietà e sul virtuosismo, nel tentativo di ingraziarsi un pubblico trasversale e non per forza militante. Un concerto pianistico interamente dedicato a Schumann, costringe a riflettere e a tenere alta l’attenzione per i novanta minuti della sua durata, ponendosi felicemente in controtendenza. È una linea culturale, questa, che caratterizzerà gran parte del cartellone ‘19/’20 di Santa Cecilia: Bach, Haydn e soprattutto Beethoven saranno al centro di altri progetti esclusivi stimolanti.

È CHIARO come per dare spessore a programmi di questo tipo sia necessario affidarsi a specialisti del repertorio e, più in generale, a interpreti di consapevolezza e profondità consolidate. Lunedì scorso, dunque, è toccato ad Andrea Lucchesini esplorare il mondo pianistico di Schumann, partendo da due pagine giovanili – Papillons e Carnaval – per giungere, dopo la citazione delle Tre Romanze op. 28, a un capolavoro di inattaccabile maturità tecnica ed emotiva, la Fantasia op.17.
Se un filo rosso esiste tra le pagine in locandina, questo è dato dal comune senso di lontananza, ossia di «evocazione» che percorre i diversi brani, assecondando uno stato dell’animo molto romantico e, appunto, molto schumanniano.

Sette anni – tanti ne corrono tra Papillons e la Fantasia in Do Maggiore – possono essere un soffio se messi in relazione con il fluire frenetico della nostra era, ma nel caso di Schumann valgono a dividere fasi della vita assai distanti, anche nelle aspettative. Tutto ciò è evidentemente chiaro a un artista sensibile come Andrea Lucchesini, che rimarca il gap tra i due mondi attraverso un tocco diversamente espressivo e il ricorso a un’ampia gamma di timbri e dinamiche.

LA MAGGIORE libertà di lettura che sorregge con forza speciale Papillons, a cominciare proprio dallo stacco dei tempi adottato, diventa il riflesso credibile di un universo ancora non definitivo e di un presente al quale il ricordo aggiunge speranza al racconto, e non necessariamente nostalgia. Il Carnaval op.9, nel percorso monografico proposto da Lucchesini, si situa allora come punto di snodo cruciale. È il brano attraverso il quale Schumann accede a quella Sehnsucht, a quello struggimento destinato a diventare trainante in quasi tutta la sua produzione cameristica.
Il tono per alcuni versi rapsodico conferito dal pianista alla pagina contribuisce a definire una galleria di bozzetti in chiaroscuro, dove passione e raccoglimento non ammettono mezze misure e gli esiti, conseguentemente, sono di confortante vivacità.

Su questo substrato emotivo, Lucchesini innesta la seconda parte del recital. Le tre Romanze gli servono a mostrare come la Sehnsucht possa trovare altre vie di sbocco musicale, per esempio incanalate nei margini del Lied; esemplare in questo senso, per afflato lirico e struttura, la resa della seconda romanza. Ma il più sorprendente processo di sublimazione di ogni eccesso passionale e creativo si realizza nella Fantasia che chiude il programma, unico possibile punto di approdo dell’ampio racconto pianistico sviluppato da Lucchesini nel nome di Schumann. Il Finale, specialmente, prende le sembianze di una meditazione sul dolore, ed è un epilogo che sa di catarsi dopo quei primi due movimenti riletti in un clima di smarrimento, ora vissuto con paura (il primo), ora con spudoratezza muscolare (il secondo). Qui, la compostezza del fraseggio sottrae l’ascolto a qualsiasi rischio di dispersione: la Fantasia si snoda con consequenzialità seducente, i volumi sono equilibrati, il tocco approfondito fino a lasciar trasparire una storia di vita reale, romanticamente trasfigurata. Non avrebbe senso, oggi, pensare e suonare Schumann senza guardare al di là dello spartito.

MOLTI APPLAUSI per Lucchesini in una sala Santa Cecilia affollata ma, forse, troppo grande per godere fino in fondo delle atmosfere evocate, non di rado venate di intimismo. Tre bis: una Bagatelle di Beethoven, Chopin (col vorticoso quinto Studio dall’opera 10) e Schumann – Träumerei – per chiudere virtuosamente il cerchio.