«Faccio parte della seconda generazione di rapper formatasi all’interno del movimento Posse negli anni ’90; sono salito sui primi palchi nel ’94, ’95. Io sono del ’77 e ho cominciato a rappare che ero molto piccolo sulla scia dei pionieri italiani, Assalti Frontali, 99 Posse..». Parla Lucariello, pseudonimo di Luca Caiazzo, professione rapper, che ha pubblicato di recente il suo terzo album CMNF8 (Che me ne fott) disponibile sia in formato digitale che fisico, e editato dalla sua nuova etichetta, Vezuvio Records. Tutto in piena etica del Do it Yourself, ovvero di chi fa necessità, virtù: «Sì, spesso mi avvalgo anche di musicisti che sanno suonare, chiaramente. Però il lavoro che faccio io, oltre ovviamente a quello di scrivere i testi, è proprio questo, lavorare sul ritmo e le frequenze del rap. Prima utilizzavo i campionatori, ora uso il computer».
E prosegue: «Sono un autodidatta, mi arrangio suonando alcuni strumenti, ma non sono in grado di sostenere una performance. Però grazie a queste piccole… conoscenze riesco ad utilizzare al meglio degli strumenti tecnologici, operando appunto sui campionamenti e sul suono dei sintetizzatori. L’impegno è proprio più sulla tecnologia». È il modus operandi di Lucariello, con i campionamenti e i suoni elettronici che si aggrovigliano nel groove delle quattordici tracce (più 8 bonus tracks disponibili solo su web con la traduzione in italiano dei testi in dialetto, per gli ascoltatori più interessati ed attenti) cantate quasi esclusivamente in napoletano. Suoni intessuti da Lucariello con il contributo di giovanissimi smanettatori e giramanopole partenopei: Oxroc, Breakstarr, Sonakine e Nazo, con sovraincisioni di beat clubbin e dubstep prodotti da Cristiano Fini e Daniele Chessa. Un cd registrato a Napoli che della città affronta le complicate e spesso drammatiche, tematiche sociali in una sorta di cut up borroughsiano.

Si nutre dei suoi umori neri e al contempo solari, dei suoni, dei colori, delle essenze, di tutto il vissuto nei vicoli del centro storico. Il rapper partenopeo racconta storie del suo quartiere, Santa Chiara, dove accanto alla denuncia della criminalità camorristica, affronta il tema del disagio sociale, le difficoltà di uscire dai bassifondi. Sono fatti di cronaca raccontati per ossimori come nel brano Democratica Violenza, ispirato ai casi di Cucchi e Aldrovandi (un brano che risale a qualche anno fa). Ma c’è anche la «grande bellezza» della napoletanità, espressa per aneddoti e modi di dire con un flow e una tecnica acquisite nel corso di tanti anni trascorsi a cesellare il sound nel sottobosco dell’underground partenopeo. «Quando scrivo, cerco di pensare alla persona a cui voglio parlare. Può essere il mio ascoltatore medio, che magari conosco e incontro anche per strada. Cerco dentro di me e parlo con un’altra persona e gli racconto qualcosa di me, ciò che penso, qualcosa di lui, che ho percepito. Io creo rime e vicende basandomi sul mio vissuto quotidiano, o da quello che vedo intorno a me, e che riesco in qualche modo a fare mio. Un’operazione che ho perfezionato dal mio disco precedente, I Nuovi Mille, dove ero in aperta polemica con i festeggiamenti per i 150 dell’unità d’Italia, dove ho parlato della realtà di tanti giovani che si danno da fare e si rimboccano le mani, magari impegnandosi nel volontariato. Un messaggio che temo sia passato un po’ in sordina».

[do action=”citazione”]Avevo otto anni, quando uscì una canzone di Tullio De Piscopo intitolata Stop Bajon, scritta da Pino Daniele D’Episcopo, che faceva, ’uè, oh levat’ annanz, stanotte’. La sapevo a memoria e ho provato a scrivere un altro testo su quel ritmo.[/do]

L’incontro con il rap risale all’infanzia di Lucariello. « L’avevo intitolata M’agg magnat ‘nu scarafone, (ride di cuore) e ho un video dove mi si vede piccolino impegnato in questa specie di rap. E non sapevo neanche in cosa consistesse, ma è come quando senti una cosa che ti entra dentro, ti simola. Poi crescendo ho vissuto l’esperienza rap nei centri sociali, nel ’91 avevo quindici o sedici anni, e c’erano i 99 Posse. L’impegno politico era relativo all’epoca, era più una passione musicale. Tanto è vero che tutte le occupazioni fatte nel corso del tempo, erano sempre legate al discorso musicale.

All’epoca i centri sociali erano l’unico luogo dove potevi essere libero di suonare e comporre, a parte qualche problema con le femministe che censuravano i dischi di Snoop Dogg per i contenuti spinti e sboccati e il linguaggio poco rispettoso della dignità femminile, e anche il mio linguaggio un po’ crudo e diretto non era gradito».
Poi arrivano i primi dischi, i pomeriggi interi da adolescente trascorsi a guardare le trasmissioni di DJ Television con Jovanotti alla consolle a scratchare su i Public Enemy di Fight the Power, Cypress Hill, ma prima ancora la folgorazione è stata il funk di James Brown, grazie a una doppia copia di Sex Machine. «Un disco – spiega Lucariello – che mi regalò un signore che lavorava alla Zeus records, a cui portavo la spesa. Un vinile che ho consumato…». Il dna musicale gli è stato trasmesso dai suoi genitori; il padre è sempre stato «un cantautore da casa, che con la musica non ci ha mai fatto una lira ma è sempre stata una passione», mentre la mamma a casa alternava «Sergio Bruni e Mario Merola, passando per Gianni Morandi e Claudio Baglioni».

Un itinerario artistico e e umano che lo ha portato al nuovo CMNF8, che cita Taxi Driver e Julian Assange, a cui Lucariello ha voluto rendere omaggio assieme al gruppo di Wikileaks «che non è un gruppo di hackers destabilizzanti ma persone che contribuiscono alla diffusione della conoscenza», e un brano che prende anche posizione sulla prostituzione, Proibit’ Ambit’ (con Dope One di Sangue Mostro).