Per qualche ragione che non so (ed è sempre bello lasciare che la ragione non prenda il sopravvento) percorro per arrivare al mio appuntamento con Luca Ricci la strada alla fine della quale, quasi 20 fa esatti, ho avuto un brutto incidente. Bando alle ciance, ci vediamo al semaforo, mi fa un gesto veloce col braccio – per di là – e io mi sposto in quella direzione dopo esserci salutati con un abbraccio di primo impatto (mai visti prima di persona). Luca Ricci è, ai miei occhi, un uomo di azione: una figura che si impone all’attenzione, sguardo torvo di natura, portamento vigoroso di qualcuno a cui ti puoi affidare (anche se non saprai mai dove andrai a finire). Ci sediamo in un bar a conoscerci.

Dando per assodato che ogni giorno la vita ti pone davanti a delle scelte, ci sono momenti in cui scegliere appare più pesante o più fondante, in cui senti dentro di te che andando da una parte imbraccerai un percorso e se invece svolterai dalla parte opposta succederà tutt’altro. In «Casablanca» è il finale che riassume tutto: Ilsa (Ingrid Bergman) può salire sull’aereo raggiungendo Victor Lazlo, il marito, o può restare a terra con Rick, Humphrey Bogart, suo unico vero grande amore. Ha in mano il suo destino. Tu che faresti? Cosa faresti prevalere, il cuore o la ragione?
La scrittura, come ogni forma d’arte, è un mestiere strano, che in realtà tende a sovrapporsi e in certi casi a cannibalizzare la vita. È un lavoro in cui non si stacca mai, in cui talvolta vivere è, appunto, sinonimo di lavorare (e viceversa), l’arte è una grande passione che non si sceglie ma da cui si è scelti, proprio come una vocazione spirituale o religiosa, per questo parlare di sliding doors con uno scrittore può essere fuorviante. Ho un senso del destino molto forte, però con gli anni ho tentato di smussare la componente fatalistica: cerco di lottare per diventare quello a cui ero stato destinato, ecco.

Di «momenti Casablanca», chiamiamoli così, ne capitano un paio, tre se sei fortunato (o sfortunato), nella vita, e si possono verificare in vari ambiti: nella sfera personale-sentimentale, in quella lavorativa, in quella pratica (scegliere di trasferirsi in un’altra città, di abbandonare qualcuno, di preferire una cosa a un’altra). Se ti va, raccontamene uno.
Milano, 1992, scuola d’arte drammatica Paolo Grassi, ufficio del Direttore Gabriele Vacis. Avevo appena confessato che fare l’attore mi annoiava, che il mio desiderio era quello di scrivere. Vacis mi aveva guardato impassibile e aveva detto: «La soluzione è semplice, abbandoni la scuola e se ne vada a scrivere». Ci ho pensato. Da una parte ci sarebbero stati altri tre anni di teatro, un’università dell’arte, giornate faticose ma molto rassicuranti; dall’altra un ritorno nella provincia (che tutti per anni avrebbero letto come una sconfitta), inventarsi un percorso per diventare uno scrittore. Ho scelto la seconda ipotesi (mi è parso in realtà di non aver mai avuto alternative), e ho preso un treno per Pisa, che negli anni ’90 erano ancora gli Intercity parecchio lenti e scassati, e mi ricordo come se fosse ora una sensazione di torva euforia, come quella di un giocatore orgoglioso del suo azzardo.

Nel momento in cui il protagonista del tuo romanzo «Gli autunnali» trova in un mercatino il vecchio volume sugli artisti di Montmartre e si invaghisce del viso di Jeanne Hébuterne, compagna di Amedeo Modigliani, non vive un istante cruciale, di svolta, di quelli che ti cambiano la vita prima ancora che tu lo scopra? Poteva passeggiare altrove, incontrare qualcuno, essere distratto da qualcosa preferendo la traversa a destra invece che quella di sinistra e invece è finito proprio là, in quel momento preciso, davanti a quella bancarella, di fronte a quel libro … Quanti momenti del genere capitano in una vita? Quanti decidiamo di viverne e a quanti rinunciamo per codardia o sottovalutandone l’entità?
Il protagonista de Gli autunnali in realtà ha bisogno di un amore che trascenda il suo quotidiano. Attraverso la foto di Jeanne, con uno schema feticistico, s’immagina di amare l’ideale di un amore assoluto, totalizzante, che non scende a nessun compromesso. È mosso da un bisogno primario, come la fame o la sete, e perciò non sceglie tra porte diverse, è spinto verso un’unica direzione, che poi io rappresento nel romanzo con Jeanne Hébuterne. Il bisogno d’amore crea l’amore, è quasi sempre così, vale per tutti gli amori nuovi, ci innamoriamo quando abbiamo voglia d’innamorarci. Noi siamo il putto che spara la freccia nel suo stesso petto. L’amore più grande è anche l’amore impossibile. In questo senso, la difficoltà amplifica la percezione dell’amore, di stare amando, perciò non c’è niente di più grande di un amore a distanza. La distanza incolmabile tra un uomo vivo e una donna morta, ad esempio.

Sempre in riferimento al tuo romanzo, il protagonista potrebbe più volte confessare alla moglie questa sua infatuazione, dapprima irreale e solo virtuale per la fotografia su pagina, in seconda battuta reale e compiuta attraverso l’incontro – anche questo momento di svolta – con Gemma, vecchia cugina della moglie, invitata a cena proprio da lei. Sceglie di vivere tutto in segreto, senza compromettere un rapporto in parte già compromesso dal tempo e dai rituali divenuti solo noiosi e non più complici. Perché lo fa?
L’ossessione a un certo punto s’incarna in un donna che di Jeanne ha l’aspetto – ricorro senza vergogna al tema letterario per eccellenza: il doppio – e circostanze esistenziali simili: aspetta un figlio da un pittore maledetto. Non potrebbe condividere la sua esperienza con la moglie Sandra non per ipocrisia borghese ma perché per lui quell’amore nuovo è un’esperienza soprannaturale, una specie di reincarnazione: perderebbe quello che chiama «la sospensione dell’incredulità» (serve per amare, e secondo Coleridge anche per leggere un romanzo).

Forse i «momenti Casablanca» si rivelano tali solo a posteriori, quando la mente si sofferma ad analizzare le proprie scelte, tentando di farci i conti: in questo sono momenti letterari, meta-reali, in cui prevale fortemente la sfera dell’immaginario su quella della realtà tout court. Siamo, in fondo, tutti personaggi letterari più che veri esseri umani in carne ed ossa? Come ti rapporti con questa dimensione? Quanto spunto trai dalla realtà per scrivere storie?
Si potrebbe dire che la letteratura abbia uno scopo puramente indicativo, di misurazione. Lo scopo di misurare cosa hanno immaginato gli uomini nel corso dei secoli. Scrivere di per sé è immaginare. Non si deve pensare che l’immaginazione riguardi solo le storie fantastiche o i mondi astratti. Al contrario riguarda soprattutto la realtà. Ecco forse la definizione migliore d’immaginazione: la capacità dell’uomo di ricombinare la realtà in storie di fantasia.

Un passo e tutto cambia. Uno split, un saltello, una virgola spostata in avanti e tutto sarà diverso. Come il minuscolo modifica i massimi sistemi. Come le caselle sono impalpabili, vaghe, acqua dentro cui il piede affonda senza conoscerne la profondità. Pensare così fa tremare ma forse anche restare vivi, vigili, all’erta, con i sensi pronti a recepire le novità. Che ne pensi?
Lo scrittore finge ma il suo scopo, la sua tensione, il suo gesto sulla pagina è sempre teso a una qualche verità irraggiungibile. Che la verità resti irraggiungibile è un altro punto fondamentale perché la letteratura svolga al meglio il suo compito di scandaglio, di rilascio di stimoli intellettuali ed emotivi. Lo scrittore che s’illuda di arrivare a una qualche verità definitiva attraverso la sua opera depotenzierà la sua letteratura scrivendo in funzione di qualcosa, un fine religioso, politico, sociale. Il preciso scopo della letteratura invece è di non avere uno scopo preciso.

Anche questo momento, per te, è un «momento Casablanca»: il libro può piacere o meno, può riscuotere più o meno successo, essere candidato o vincere premi letterari importanti…Hai paura? Sei elettrizzato? C’è qualcosa che puoi fare per portare la mano del gioco nettamente in tuo favore?
Quello che era in mio potere l’ho fatto scrivendo. Di fronte alla complessità e anche assurdità della filiera editoriale non posso che alzare le mani. È un’epoca in cui la cultura bestsellerista è egemone in libreria. Bisogna farsi spazio, sgomitare. I premi poi sono balocchi meravigliosi: se te li danno è giusto gioire, se non te li danno non bisogna rammaricarsene.

Il mio thè cinese è finito. Luca ha bevuto il suo latte macchiato. Le cose importanti sono state dette e fatte. Ci alziamo. Ho come l’impressione di aver consumato più di quelle due piccole tazze di liquido fumante che ho bevuto. Sono sazia. È stato diretto e intenso. Siamo stati presenti, qui e ora. Altro che «momenti Casablanca»!