Chi non ricorda la famosa scena cult di Paolo Villaggio-Fantozzi che rincorre la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare per riportarle – mentre lei è in treno, in partenza – il celeberrimo giallo, L’albicocco al curaro, gridando su domanda di lei il nome dell’assassino, l’altrettanto celeberrimo “Dylan Chesterton Junior”?

Da molto tempo chi qui scrive ha una domanda ricorrente: ci sarebbe qualcuno o qualcuna in grado di girare un ipotetico film oggi da questo libro immaginario già capolavoro? Ripetiamo: un film oggi, mantenendo intatto lo spirito di quel momento ma considerando le complicazioni di questo di momento – come dire: un film-film, né storia filmata né una serie di illustrazioni.

È chiaro: trattasi di sogno cinefilo e come tale si tratta di qualcosa rimasto nel vago per un po’, almeno fino a quando il sottoscritto non ha scoperto il cinema di Luca Ferri.

Classe 1976, Ferri (www.ferriferri.com) è filmmaker indipendente che da anni produce e gira lavori diversissimi per temi e coerenti per stile e visione, i cui frutti ora stanno maturando, diventando sempre più visibili. Si pensi per esempio al lungometraggio Abacuc (2014), nelle sale (d)a novembre, oppure al mediometraggio Una società di servizi (2015), selezionato per questa edizione del Torino Film Festival (sezione Onde).

Vale quindi la pena soffermarsi in merito, attraverso una serie di indicazioni per introdurre al suo cinema.

Di seguito si prendono come riferimenti i film citati, assieme all’opera Curzio e Marzio (2014) e al corto Cane caro (2015) – la prima uscirà in una edizione DVD molto curata l’anno prossimo (per la Map Editions: http://www.mapeditions.com/Home.htm); il secondo è in giro in festival importanti.

Meccanismi a orologeria

Tutti i film di Ferri sembrano sempre essere pensati come operazioni calibrate al millimetro.

Sono certamente esempi di cinema non-narrativo dove la composizione è spesso influenzata – quasi “dettata” – da altro: dall’arte (Curzio e Marzio); dalla musica (Abacuc); dall’intersezione tra tecnologie (Cane caro); oppure dall’architettura (Una società di servizi).

Il corpo, le macchine

In questi lavori molta dell’attenzione di Ferri è sulla relazione tra corpo e macchine/meccanismi.

Per esempio c’è il corpo umano ridotto a oggetto-maschera nell’opera Curzio e Marzio (in collaborazione con il compositore Dario Agazzi), oppure il corpo pantagruelico del protagonista di Abacuc, in relazione solo con morti e voci meccaniche in un mondo che sembra aver(lo) abbandonato – anche qui, contributo fondamentale di Agazzi.

In Cane caro e Una società di servizi c’è, invece, una variazione sul tema.

Nel primo caso il soggetto è un cane, dunque il corpo animale, preso in un esperimento per tornare “alla vita” e “invocato/ricordato” in forma di lettera dal proprio padrone, presente solo come voce meccanica – le immagini provengono da un film pazzesco, russo, Experiments in the Revival of Organisms (D. I. Yashin, 1940); Ferri, qui, per la voce, ha utilizzato l’app Balabolka.

Nel secondo caso l’attenzione è rivolta all’idea di corpo sociale: siamo in Giappone, oggi, in una sorta di centro commerciale. Qui osserviamo la gente passare, fermarsi, parlare, fermarsi, passare di nuovo. Sono figure in un paesaggio dove, alla fine, non si può che contemplare lo spazio architettonico, tra bellezza formale e ironia – ma anche malinconia – esistenziale.

Imparare dall’architettura

Imparare da Las Vegas è un classico tra i libri sull’architettura contemporanea.

Ora, si può evocarne il titolo e parafrasarne il senso per dire come il cinema di Ferri abbia la propria ragion d’essere in un certo rapporto con l’architettura, intesa come fonte di ispirazione.

In merito, si possono fornire due considerazioni.

Una è di metodo. Ferri sa filmare l’architettura ma soprattutto la ama. E tale aspetto sembra influire su sguardo e montaggio, prediligendo il rapporto tra singole parti e l’insieme come modo per la significazione, invece di scegliere di lavorare – per esempio – sul momento della visione.

Evitando rischi di estetismo.

L’altra è sull’immaginario. Ci sono tantissimi elementi pop in questi film: gli ornamenti di Curzio e Marzio; i manichini di Abacuc; le vetrine e il karaoke di Una società di servizi; certi riferimenti del commento verbale in Cane caro. La cosa interessante è però come lo stesso filmmaker li de-contestualizza e ri-materializza, come se gli imprimesse una sorta di aura.

In fondo, una traduzione/riduzione a epifania propria di ogni buon architetto.

Commedie sperimentali

Ferri è uomo colto ma anti-intellettuale, nel suo cinema segue molto le intuizioni. E queste si dimostrano non tanto lontane da quelle di sviluppi espressivi che si sono visti, da noi, tra gli anni Sessanta e Settanta, tra certo cinema di genere e quello sperimentale.

Per esempio si possono fare i nomi di un Augusto Tretti oppure di un Giulio Questi, ma nel modo radicale di approccio al linguaggio – qualcosa di raro nel cinema contemporaneo italiano – il lavoro del nostro si può senza problemi ricollegare alla stagione di quegli anni anche dal punto di vista dei vari Brocani, Bargellini e altri.

Semmai, a tutto questo, si può aggiungere come il cinema di Ferri sia una sorta di continuazione della grande tradizione comica, cioè violenta, della commedia all’italiana – però in termini contemporanei, giocoforza sperimentali.

L’albicocco al curaro

Torniamo all’inizio. Una pianta di albicocco non trasmette forse una idea di natura conciliante, appunto “fruttuosa”?

Ecco, a questo aggiungiamo – come da copione – del curaro, cioè veleno.

Qualcosa che non si vede ma che c’è.

Chiaro, è una immagine non data in natura, ma può valere come metafora del cinema di Ferri, bello formalmente – naturalmente bello – ma negli effetti velenoso.

E non è forse questo, in fondo, il lavoro di chi vuol fare arte in modo serio, esprimere qualcosa che sta in una tradizione ma che possa essere, alla fine, qualcosa di cattivo?