Il nodo della regolamentazione delle concessioni, nell’ambito del patrimonio “indisponibile” del comune di Roma, sta venendo al pettine. Ma nel modo peggiore: con un’azione della Corte dei Conti che, oltre a far pesare su alcune dirigenti capitoline gli errori politici e amministrativi di anni, rischia, con un approccio puramente contabile, di buttare via il bambino con l’acqua sporca. La politica, dopo anni di “mediazioni” che nascondevano anche “inciuci”, ora tace. È l’era pentastellata di Roma, bellezza. Perfino se sulla poltrona di vicesindaco siede uno come Luca Bergamo, che ha conservato le deleghe alla cultura e che negli “spazi autogestiti” ha mosso i suoi primi passi politici.

Assessore, lei cosa ne pensa di questa vicenda?

All’origine di tutto ci sono errori di amministrazioni comunali che non hanno rinnovato le convenzioni mentre, al contrario, continuavano ad assicurare la continuità agli inquilini degli immobili. Addirittura continuando ad emettere bollettini per il pagamento del canone anche a concessione scaduta. Per la Corte, non ha importanza di chi è la colpa: si tratta di occupanti “illegittimi”. Perciò chiede ai dirigenti di riacquisire la titolarità dei beni e in più intima loro di applicare un canone adeguato al mercato anche per il periodo pregresso, dal momento in cui è scaduta la concessione fino allo “sfratto”. La cosa paradossale è che l’azione della Corte si è focalizzata proprio su quelle convenzioni a “canone ricognitivo”, ossia quello applicato alle organizzazioni che non fanno attività a scopo di lucro. Il problema dunque è difficile e delicato, proprio perché non si tratta di azzerare quelle concessioni “scandalose” di cui si è parlato per «Affittopoli».

Come se ne esce?

Stiamo lavorando da tempo, anche se non abbiamo raggiunto ancora formulazioni soddisfacenti, alla ricerca di criteri che siano il più obiettivi possibili per stilare poi un regolamento per la concessione dei beni indisponibili del Comune, da sottoporre al voto e all’adozione del Consiglio comunale. La politica finora ha agito con discrezionalità soggettiva, dobbiamo invece cercare dei criteri oggettivi per riconoscere chi ha titolo e chi non ne ha.

Quali potrebbero essere questi criteri?

Si basano su tre elementi fondamentali: la definizione di quali sono gli immobili strategici sul territorio, il tipo di attività di cui quel territorio necessita, e la natura giuridica dei soggetti titolati a svolgere quell’attività. Per esempio, le ambasciate o attività commerciali mascherate da altro non devono averne diritto. Ma c’è anche un quarto elemento: l’assunzione di responsabilità da parte del Comune nello scegliere e supportare quel tipo di attività che svolgono una funzione sussidiaria alla funzione pubblica. È una questione, quella del welfare society, che si pone in tutti i Paesi occidentali: nelle moderne società non allo Stato sociale si affianca anche una società che copre i servizi di pubblica utilità.

Basta questo a fermare l’azione della Corte dei Conti?

Bisogna immaginare un periodo transitorio, intanto. Il lavoro in ogni caso continua, anche dopo aver varato il regolamento.

Palestre popolari autogestite, spazi sottratti alla speculazione e dedicati alla cultura, asili, fondazioni…. rientrano in quel concetto di «welfare society»? Il vostro assessore Paolo Berdini sul manifesto ha parlato dell’affermazione di una nuova cultura di rispetto dei beni comuni, che peraltro ha consentito la vittoria di Virginia Raggi…

Il modello dell’ex asilo Filangeri di Napoli, ossia di un’esperienza autonoma che spesso nasce da un’occupazione ma che si apre al territorio e ne diventa parte integrante, non è sempre applicabile.

Lei stesso però ha scelto un percorso partecipativo per l’affidamento della gestione del cinema Aquila…

Partecipazione e bando non sono in contraddizione. Per l’Aquila abbiamo realizzato un percorso di partecipazione, articolato e aperto a chiunque, per definire l’uso e le funzioni che la cittadinanza si aspetta da quel bene sottratto alle mafie. Da quella domanda civica viene il canovaccio del bando pubblico.

Il bando è il punto di frizione con le realtà di autogestione romane. Senza le quali, obiettivamente, la città soffrirebbe senz’altro di più. Ma, al di là dei centri sociali, lei metterebbe a bando pubblico l’asilo del Celio Azzurro, per fare un esempio? O l’Angelo Mai, che recentemente lei ha elogiato pubblicamente?

Bisogna capirsi su cos’è un bando: finora erano pensati con un unico elemento centrale, quello della sostenibilità economica. Ma se tra i criteri del regolamento c’è il carattere sussidiario dell’attività, se si riconosce come dirimente il primario interesse pubblico, nel bando va contemplato anche il grado di costruzione del rapporto con il territorio. Ecco che le realtà che sono ormai entrate a far parte del tessuto sociale vedono riconosciuto il valore che portano in dote. Naturalmente però i progetti vanno messi a confronto e da questo possono nascere novità positive per i cittadini.

La legalità formale prima di tutto? La politica che cede la parola alla burocrazia?

Le regole e le leggi possono essere cambiate, ma ci sono e vanno rispettate. La protezione politica che c’è stata finora da parte di tutte le amministrazioni – di tutti i colori – si è disinteressata dei rapporti giuridici corretti, mescolando così ingiustizie e nefandezze a legittime scelte politiche. È finita.

La Corte dei Conti come i revisori del bilancio seguono solo vincoli finanziari e leggi di mercato. È una morsa imposta dallo Stato centrale agli enti locali contro la quale si è ribellato anche il M5S, o no?

Dobbiamo costruire nuove regole che tengano in considerazione i bisogni dei cittadini, i loro diritti e il vantaggio economico di sostenere attività sussidiarie.

Ultima domanda: lei è d’accordo con Berdini sullo stadio della Roma?

Abbastanza. Ma qui ci vorrebbe un’altra intervista…