Luc Dardenne appare all’improvviso, accaldato, quasi incredulo e incuriosito dalla scritta «The Rocky Horror House» che campeggia sotto l’insegna del Cinema Mexico di Milano che lo ha accolto per la prima di due giornate dedicate al cinema suo e del fratello Jean-Pierre, impossibilitato da altri impegni ad essere presente. Siamo nella cornice de La Milanesiana, festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi e giunto alla sua diciottesima edizione dedicata quest’anno alla polarità paura/coraggio. Incontriamo il regista poco dopo il dialogo a tre con Adriano Aprà ed enrico ghezzi che hanno introdotto la proiezione di La promesse e Rosetta «Sai perché abbiamo scelto questo nome?» mi domanda Luc «Perché mia moglie all’epoca era entusiasta di un libro di Rosetta Loy». Comincia così un’intensa conversazione, interrotta ogni tanto da domande sugli amici italiani di Luc «Rossana Rossanda come sta?» e dall’evocazione del fratello assente…
Nei giorni della Milanesiana, oltre alle proiezioni di quattro vostri film, avete avuto la possibilità di scegliere due film della storia del cinema che vi hanno particolarmente «segnato» e la scelta è caduta su «Germania anno zero» di Roberto Rossellini e «Blow -Up» di Michelangelo Antonioni. Se la presenza di Rossellini è assolutamente «comprensibile», se si pensa al vostro modo di porvi di fronte al reale, quella di Antonioni può sembrare a prima vista apparentemente spiazzante….
Si possono amare cose completamente diverse rispetto a quelle che si fanno e Blow-Up è un film che amiamo moltissimo. Tre anni fa ero a Parigi e andai a rivederlo. L’avevo già visto due volte ma erano almeno vent’anni che non lo vedevo e l’ho trovato completamente diverso rispetto a un tempo. Sarà anche perché la visione di un film è sempre condizionata dal momento, anche storico, in cui lo si guarda e poiché quello che stiamo vivendo, dal punto di vista politico, è un periodo molto vuoto e triste, dove la politica-spettacolo ha vinto ovunque, in questi anni sono parecchio pessimista. Ecco dunque che questo film, raccontandomi qualcosa che non vedevo da molto tempo ormai, qualcosa che ha a che fare con la ricerca del vero, mi riferisco al tentativo del protagonista, il fotografo, di trovare qualcuno o qualcosa che getti luce sulla verità della morte, nel caso specifico di un assassinio, ecco, trovo questa volontà, questa ricerca assolutamente attuale e molto politica.
Quest’anno ricorre il quarantennale dalla scomparsa di Rossellini, regista imprescindibile per la vostra formazione di cineasti, essendo stato uno dei primi a sfondare i confini fra documentario e finzione. Perché proprio «Germania Anno Zero» e cosa avete ereditato dal suo modo di fare cinema?
Germania anno zero, il film che abbiamo scelto, per me resta ancora oggi l’anno zero del cinema. Ancora oggi lo vedo con la stessa freschezza della prima volta e anche mio fratello, se fosse qui, direbbe la stessa cosa. Trovo straordinario il momento in cui il piccolo Edmund cammina fra le rovine della città: è girato magnificamente, senza drammatizzazioni, Rossellini lo filma quasi come se fosse un ragazzino che gioca semplicemente e invece sta per suicidarsi, e questi giochi non sono che un preludio alla sua morte. Lui, la sua ideologia uccidono il padre, e inoltre aggiungerei che Edmund non si suicida come vittima del nazismo, è lui che si butta, ha semplicemente paura e chiude gli occhi. Credo che la più grande eredità che abbiamo ricevuto da Rossellini sia proprio in quella libertà, quel suo modo di filmare lateralmente le cose, in parallelo, per poi far crescere la tensione drammaturgica.
A proposito di filmare, dal suo diario (Dietro ai nostri occhi, pubblicato in Italia qualche anno fa da ISBN) emerge chiaramente il vostro metodo di lavoro in fase di preparazione, e successivamente di ripresa di un film, ma lo spazio dedicato al ideazione di un’opera è minore rispetto al resto…Quando e come nasce un vostro lavoro e come si esplicita successivamente in fase di scrittura?
Io e mio fratello pensiamo a un personaggio e ne parliamo continuamente, anche al bar quando prendiamo un caffè. Poi insieme creiamo una struttura larga ma con un’inizio e una fine molto precisi perché nel mezzo ci possono, e ci devono, essere molti cambiamenti. Successivamente scrivo da solo la sceneggiatura ma telefono spesso a Jean-Pierre per discutere concretamente di idee e movimenti. Per me la cosa fondamentale è pensare al ritmo, non è importante se poi cambia leggermente in fase di montaggio, io devo sentire una cadenza. Se osservassi le nostre sceneggiature, non troveresti pagine fitte di dialoghi e di azioni. Quando scrissi Il ragazzo con la bicicletta, ad esempio, sulla sceneggiatura c’era semplicemente scritto, per circa due pagine, «Lui pedala». Non era importante la durata, la modalità o la scelta dei piani dell’inquadratura perché filmare qualcuno che cammina, o in quel caso pedala, è comunque filmare qualcuno che pensa e non si può ingabbiare il pensiero in una pagina.
Tra l’altro lei, per alcuni anni, ha tenuto un laboratorio di scrittura e sceneggiatura presso l’università di Bruxelles. Come è riuscito a insegnare qualcosa, mi riferisco alla sceneggiatura, che nel vostro cinema, apparentemente, non si percepisce visto che le cose sembra che accadano naturalmente davanti alla vostra macchina da presa?
Ho insegnato fino al 2008, poi ho smesso unicamente perché non avevo più tempo e oggi posso solo dedicarmi a un seminario breve di otto giorni a partire dai nostri film. Per me l’importante era che i ragazzi trovassero le scene e la drammaturgia a partire dai movimenti del corpo dei loro personaggi e non a partire dai dialoghi. La tendenza oggi è di creare dialoghi per spiegare, per esplicitare il tutto mentre credo che i dialoghi non debbano spiegare nulla, possono esistere dialoghi ben scritti senza che questi debbano spiegare necessariamente qualcosa. Da sempre combatto contro questa tendenza spiegando appunto ai ragazzi come scrivere con la macchina da presa e con i corpi degli attori, sono questi gli elementi primari del cinema. Quando si fa un film si deve dire qualcosa e questo non significa fare un film a tesi, veicolare un messaggio ma semplicemente sapere cosa dire, cosa si vuole raccontare e sopratutto come raccontarlo. Questa tendenza a illustrare, a «riprodurre» un sentimento che si prova, la trovo assolutamente ingiusta nei confronti della potenza dell’immagine ma questo non vuol dire che si debba parlare solo di temi importanti come d’immigrazione e non del proprio mal di pancia!
Riguardo al discorso sull’immigrazione, in questi giorni in particolare si sta molto discutendo, proprio nella sua Bruxelles, della questione dei migranti, trattata con molta frequenza nel vostro lavoro, a partire da «La promesse». Qual è la sua posizione?
Trovo che la situazione sia deplorevole e non so come può migliorare. Mi sento sperduto perché l’Europa non prende una posizione anche se non mi sento di accusare l’istituzione europea perché pur essendoci un parlamento, non esiste un governo federale europeo. Siamo noi, italiani, belgi, francesi, a dover parlare ai nostri governi. È evidente che l’Italia non può accogliere tutti i migranti, deve esserci una ripartizione, non si può fare in maniera diversa e i governi nazionali fanno unicamente attenzione ai propri abitanti. Non si può non accogliere, non importa per quali motivi queste persone lascino i loro paesi ma l’accoglienza resta un diritto dell’uomo. I popoli si muovono, anche gli italiani lo hanno fatto nel passato, e anche in questo momento, e la migrazione delle genti sarà parte del nostro futuro. Per quel che ci riguarda, come cineasti, continueremo a parlare, a denunciare, a ribadire che il diritto all’ospitalità è fondamentale, è il più importante.